Il regime di guerra non è una parentesi, ma la forma di governo del presente. La crisi è permanente, e i poteri che la gestiscono vogliono farci credere che non esista alternativa. Tocca a noi dimostrare il contrario.
Viviamo un tempo in cui la guerra non si misura solo nei fronti armati, ma nella vita quotidiana. Le crisi – ecologica, economico-finanziaria, geopolitica, sociale – si alimentano a vicenda, trasformando la precarietà, l’austerità e la sorveglianza in strumenti stabili di governo.
Il Dl “sicurezza” non è un atto isolato: fa parte di un processo più ampio, europeo e globale, di rafforzamento degli apparati coercitivi, criminalizzazione del dissenso, uso del diritto penale per produrre nemici interni ed esterni. Questo avviene mentre nazionalismi e identitarismi tornano a essere branditi come collante di un consenso sempre più fragile.
Il patto sociale novecentesco tra capitale e lavoro è ormai spezzato. Il lavoro stabile è l’eccezione, la precarietà è regola. Le vecchie forme di mediazione politica arrancano di fronte a un capitalismo che governa frammentando. Le lotte esplodono in modo intermittente, spesso radicali e creative, ma faticano a sedimentarsi.
Eppure, il conflitto non è scomparso: si sta reinventando.
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Il movimento climatico globale – da Fridays for Future a Ende Gelände – unisce piazze di studenti, azioni dirette e campagne contro il fossile.
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La logistica in Italia, con i lavoratori migranti organizzati dal sindacalismo di base, ha dimostrato come si può vincere con scioperi determinati e autonomia organizzativa.
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L’ex GKN di Campi Bisenzio lotta per una fabbrica pubblica e socialmente utile, intrecciando difesa del lavoro e conversione ecologica.
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Il movimento femminista transnazionale – da Ni Una Menos a Non Una di Meno – lega la lotta contro la violenza patriarcale alla battaglia contro lo sfruttamento.
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Le lotte territoriali come il No Tav in Val Susa o le mobilitazioni contro il ponte sullo Stretto resistono da decenni a un modello estrattivista e distruttivo.
Queste esperienze indicano una direzione comune: costruire convergenze reali tra lotte diverse, legare il piano locale a quello globale, unire resistenza sociale, ecologica e decoloniale.
Per farlo, serve mettere in discussione lo spazio europeo, smontandone il mito “pacifico” e riconoscendone il ruolo nei processi coloniali e post-coloniali, nella militarizzazione delle frontiere e nell’imposizione di austerità. Significa immaginare un internazionalismo dal basso che metta al centro autodeterminazione e solidarietà concreta.
In un tempo in cui la guerra è normalizzata e la repressione si traveste da ordine, non basta difendersi: serve un’offensiva politica e sociale fatta di scioperi climatici e del lavoro, azioni di disobbedienza civile, occupazioni, reti di mutuo soccorso, boicottaggi e sabotaggi economici.
La storia insegna che le fasi di crisi possono essere terreno fertile per nuovi poteri dal basso. Ma solo se chi lotta ha il coraggio di unire le resistenze, stringere alleanze improbabili e riconoscere che la libertà di una persona è inseparabile da quella di tutte.
Il regime di guerra è già qui. La risposta non può aspettare.