Nel cuore dell’Aspromonte, tra le pietre antiche e le strade in salita di Riace, si è consumata una delle vicende più emblematiche dell’Italia contemporanea. Il Tribunale di Locri ha dichiarato la decadenza di Mimmo Lucano da sindaco, accogliendo il ricorso della Prefettura di Reggio Calabria, sulla base di una condanna a 18 mesi legata al processo “Xenia”. Ma dietro l’asetticità dei termini giudiziari si nasconde una storia che riguarda molto più di un incarico amministrativo.
Riace era un paese destinato allo spopolamento, come tanti nell’entroterra calabrese. Case vuote, scuole chiuse, silenzio e rassegnazione. Poi sono arrivati i migranti, e con loro è tornata la vita: artigianato, cooperazione, bambini in classe, persone nei vicoli. Non un’utopia, ma un esperimento reale, imperfetto, umano. Un modello di accoglienza che ha saputo trasformare un problema – l’emergenza migratoria – in risorsa, rigenerando un’intera comunità.
La narrazione delle destre, oggi dominante, è fatta di muri, blocchi navali, parole dure come espulsioni, sicurezza, ordine. In questo racconto, Mimmo Lucano è diventato il capro espiatorio ideale: un sindaco che non ha seguito il manuale, ma ha anteposto la solidarietà alle burocrazie. Gli si rimprovera ciò che, in altri contesti, verrebbe celebrato come spirito civico e visione sociale.
La decadenza di Lucano, al di là del merito legale, ha il sapore amaro della vendetta simbolica contro un’idea di società più giusta e più umana. È un messaggio forte, quasi intimidatorio: chi prova a cambiare le regole, anche se per il bene comune, rischia di pagare caro. Eppure, proprio in questo momento, vale la pena ricordare cosa ha rappresentato Riace: un’alternativa possibile all’indifferenza e al cinismo.
Lucano ha annunciato battaglia. E la battaglia, oggi, non è solo sua. È quella di chi non si rassegna alla disumanizzazione del dibattito politico, di chi ancora crede in una comunità solidale, capace di riconoscere nell’altro non una minaccia, ma un’occasione di rinascita. In un Paese che rischia di voltare le spalle alla sua anima più profonda – quella dell’ospitalità, dell’inclusione, del calore umano – Riace resta una luce accesa.
Non sarà una sentenza a spegnere l’idea che l’accoglienza sia possibile. Non sarà una decadenza formale a farci dimenticare che un paese spopolato ha ripreso vita grazie a un gesto di coraggio. Se la legge oggi dice una cosa, la storia potrebbe dire altro domani. E Riace, con le sue contraddizioni e le sue speranze, continuerà a indicare una via.