Il teatrino messo in scena in mondo visione è la dimostrazione che la Casa Bianca sta cercando di costruire una narrativa che giustifichi una “ strategia di fuga” dell’impegno in Ucraina senza apparire debole agli occhi dell’opinione pubblica e degli alleati. La guerra in Ucraina, inizialmente dipinta come una lotta per la democrazia e l’ordine globale, è diventato un peso sempre più difficile da sostenere per Washington. Donald Trump, con il suo stile diretto e privo di ambiguità, lo dice chiaramente: o la pace alle condizioni americane, o la guerra senza il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti.
La storia insegna che gli Stati Uniti sanno ritirarsi dai conflitti in modo pragmatico, spesso lasciando dietro di sé alleati in difficoltà. Il rischio per l’Europa è che, una volta garantita la propria via d’uscita, Washington sposti la sua attenzione su altri dossier globali, lasciando il Vecchio Continente a gestire le conseguenze di un conflitto che, senza il supporto americano, potrebbe assumere contorni ancora più incerti.
Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha assistito a un progressivo svuotamento delle proprie ambizioni di “autonomia strategica”, un concetto che, se mai aveva avuto una reale concretezza, è definitivamente naufragato nei mesi che hanno preceduto lo scoppio della guerra in Ucraina e nel fallimento delle trattative di pace del 2022. Oggi, il blocco comunitario si trova di fronte a una nuova realtà: quella di un’Europa sempre più militarizzata, che abbraccia un’economia di guerra per cercare di restare un attore rilevante nel mercato internazionale.
Il concetto di “garanzie di sicurezza” avanzato dai vertici europei resta un enigma. La vaghezza con cui queste vengono definite lascia spazio a un’unica certezza: il coinvolgimento dell’UE in un assetto militare permanente, destinato a perpetuare uno stato di conflitto latente o aperto. Il tutto avviene sotto la spinta delle strategie atlantiche, che vedono l’Europa sempre più subordinata agli interessi di Washington e sempre meno capace di determinare una propria politica estera indipendente.
I costi di questa scelta sono immensi. Non solo in termini economici – con aumenti esponenziali della spesa militare che drenano risorse da settori chiave come sanità, istruzione e welfare – ma anche in termini politici e sociali. Il rischio è la costruzione di un’UE che giustifica la compressione dei diritti sociali e civili in nome della sicurezza, allontanandosi sempre più da quei principi di democrazia e solidarietà che dovrebbero esserne il fondamento.
L’idea di un’economia di guerra europea non è più solo uno spettro agitato da analisti critici, ma una realtà concreta. La produzione di armamenti cresce vertiginosamente, le industrie della difesa ricevono incentivi e finanziamenti pubblici, e la retorica del riarmo persegue il mito di un’Europa forte e capace di difendersi da sola. Ma forte rispetto a chi? E a quale prezzo?
Un aspetto cruciale di questa militarizzazione è l’aumento delle spese militari, che i governi europei stanno portando a oltre il 2% del PIL. Questo significa destinare risorse sempre più ingenti alla difesa, sottraendole ad altri settori essenziali per la qualità della vita dei cittadini. La crescita del PIL in questo contesto non è indice di benessere diffuso, ma di un’economia sempre più dipendente dalla produzione bellica e dalla sua domanda continua.
Mentre le élite politiche europee si struggono per un amore transatlantico sempre meno ricambiato, occorre interrogarsi su come costruire una vera autonomia strategica, non per le tecnocrazie ordoliberali, ma per le classi popolari del continente. Questa autonomia non passa per il riarmo e la subordinazione agli interessi di potenze esterne, bensì per una radicale revisione delle priorità economiche e sociali.
Un’Europa autonoma dovrebbe investire nella sovranità energetica, alimentare e produttiva, riducendo la propria dipendenza da attori esterni e ricostruendo un modello economico basato sulla cooperazione, non sulla competizione militare. Un’Europa che abbandoni la corsa agli armamenti per tornare a essere un polo di stabilità e diplomazia internazionale. Un’Europa capace di rispondere ai bisogni reali delle persone, anziché alimentare guerre senza fine.
Se la sicurezza deve essere una priorità, che lo sia per le condizioni di vita dei cittadini, per il lavoro, per il welfare, e non per un’industria della difesa sempre più vorace. La vera sfida dell’autonomia strategica europea non è nel campo di battaglia, ma nella costruzione di un modello alternativo di società, capace di resistere alle pressioni di una tecnocrazia che sogna un continente militarizzato e in guerra permanente. Sta alle classi popolari darsi questa prospettiva, prima che sia troppo tardi.