Le imponenti mobilitazioni di questi giorni in solidarietà con il popolo palestinese hanno riportato nelle piazze italiane un’energia che da tempo non si vedeva. Migliaia di persone — giovani, studentesse e studenti, lavoratori, attivisti, migranti — hanno riempito le strade in decine di città, unendo rabbia e speranza, indignazione e solidarietà concreta.
Non è solo una risposta emotiva di fronte all’orrore e all’ingiustizia: è la manifestazione di una disponibilità collettiva a tornare protagonisti, a non accettare più il silenzio e la complicità del nostro Paese nelle guerre e nelle politiche coloniali globali.
Queste giornate hanno mostrato almeno due elementi fondamentali che dovranno orientare le prossime fasi del lavoro politico e militante.
L’Italia torna in Europa come spazio di conflitto e solidarietà.
Per troppo tempo il nostro Paese è rimasto ai margini delle grandi mobilitazioni europee: la crisi economica, la pandemia e la frammentazione sociale avevano prodotto un senso di impotenza diffusa. Oggi, però, le piazze italiane si riallacciano a una rete internazionale che attraversa Londra, Parigi, Berlino, Madrid: un’Europa che si riscopre solidale, decoloniale, antirazzista.
Non è un ritorno nostalgico ai movimenti del passato, ma la nascita di un nuovo protagonismo che parla linguaggi diversi — femministi, ecologisti, anticapitalisti — e che rimette al centro la questione della giustizia globale come questione materiale, quotidiana, che riguarda la vita di ciascuno.
Trasformare la potenzialità in organizzazione politica.
Il secondo nodo è quello decisivo: come non disperdere l’energia delle piazze?
Le manifestazioni, pur immense, rischiano di restare episodiche se non si costruisce un orizzonte comune, un’infrastruttura politica capace di dare continuità, formazione e direzione.
Serve un movimento che non viva solo del momento, ma che sappia sedimentare potere sociale: nelle scuole e nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri popolari, negli spazi di mutualismo e nei collettivi di base.
Tradurre la solidarietà internazionale in pratica politica quotidiana significa legare le lotte: la Palestina come metafora e realtà del sistema di oppressione globale, ma anche come chiave per leggere le nostre stesse marginalità, precarietà, esclusioni.
Ricominciare a pensare in grande.
Forse questa è la lezione più importante di questi giorni: la politica non è morta, si è spostata altrove. Vive nei cortei, nei cori, negli striscioni, ma anche nelle nuove forme di cooperazione e nelle reti di attivismo diffuse.
La sfida è ricomporre queste forze in un progetto capace di parlare al Paese, di dare una visione e una strategia.
Non basta “esserci”: serve costruire, discutere, organizzare.
Perché la solidarietà, da sola, non cambia il mondo — ma può essere la scintilla per ripensarlo collettivamente.