Il Senato ha approvato oggi il cosiddetto Decreto Sicurezza, con cui il governo Meloni chiude un ciclo politico e simbolico iniziato mesi fa. Doveva essere una legge “contro i reati odiosi”, un intervento tecnico per tutelare i soggetti più vulnerabili. Ma nella realtà dei fatti – nei contenuti, nei toni, negli strumenti – è una legge da Stato di Polizia. Una prova tecnica di regime. Una torsione autoritaria che fa a pezzi i principi di una democrazia liberale per avvicinarsi sempre più alla logica della “democratura” stile Orbán, modello a cui Giorgia Meloni e Matteo Salvini si ispirano senza nemmeno più nasconderlo.
Una valanga repressiva: 14 nuovi reati e 9 aggravanti
In un solo colpo, il governo ha introdotto 14 nuovi reati e 9 nuove aggravanti. Si tratta di un’espansione punitiva senza precedenti nella storia recente della Repubblica. Non è un miglioramento tecnico del codice penale: è una riforma ideologica, pensata per normalizzare lo stato d’eccezione, per dotare l’apparato repressivo di strumenti pronti all’uso contro chiunque metta in discussione l’ordine costituito. Più che sicurezza, questa è militarizzazione sociale.
Le nuove fattispecie penali colpiscono in modo diretto forme di protesta, occupazioni, blocchi, presidi. Gli attivisti climatici, i movimenti studenteschi, i lavoratori in lotta, i solidali nei porti e alle frontiere, i collettivi transfemministi, chi resiste agli sfratti: tutti diventano bersagli. E lo diventano non per ciò che fanno, ma per ciò che rappresentano. Perché osano dire no.
La sicurezza come maschera dell’autoritarismo
Chiariamo: non siamo di fronte a una “stretta”. Siamo di fronte a un cambiamento di paradigma. Si costruisce un Paese in cui la sicurezza è il valore assoluto e totalizzante, mentre la giustizia sociale diventa un lusso secondario. Dove chi si organizza, chi sciopera, chi dissente, chi si ribella, viene trattato come un nemico interno.
Non è un caso che, in parallelo, si moltiplichino le misure che restringono la libertà d’espressione, aumentano i poteri discrezionali delle forze dell’ordine, criminalizzano la solidarietà. L’Italia che esce da questo decreto assomiglia sempre meno a una democrazia parlamentare e sempre più a un sistema autoritario con meccanismi democratici solo di facciata.
La piazza non si arresta
Ma la risposta sociale c’è stata. E va rilanciata. In questi mesi, manifestazioni in tutto il Paese hanno denunciato la natura repressiva del decreto. Studenti, lavoratori, reti civiche, movimenti autonomi, assemblee territoriali, hanno costruito una contro-narrazione chiara: la sicurezza non è repressione, è redistribuzione; non è controllo, è partecipazione; non è silenzio, è parola libera.
Ora che il decreto è legge, il compito è uno solo: organizzare resistenza. Nelle aule dei tribunali e nelle strade. Nei luoghi di lavoro e nelle scuole. Nei quartieri e nelle assemblee. Costruire alleanze larghe, solide, consapevoli. Smontare la narrazione tossica del “decoro” e della “legalità” che maschera la paura del conflitto sociale. Rimettere al centro la disobbedienza come pratica legittima.
Il nostro tempo ci chiama: rispondere è un dovere
Il Dl Sicurezza è la legge di chi ha paura del popolo. Di chi governa per i forti contro i deboli. Ma le leggi, anche le più feroci, non sono immutabili. Possono essere infrante, contrastate, abolite. La storia di questo Paese lo insegna.
Questo decreto è una dichiarazione di guerra sociale. La nostra risposta deve essere all’altezza: organizzata, collettiva, determinata. Non arretriamo. Non ci intimidiscono. Non ci pieghiamo.