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La repressione del dissenso e il vero volto del decreto sicurezza

In una Milano baciata dal sole primaverile, attraversata da oltre 50.000 persone scese in piazza per esprimere solidarietà al popolo palestinese, si è consumato uno degli episodi più inquietanti degli ultimi anni sul fronte dell’ordine pubblico. Un corteo pacifico, autorizzato, partecipato da giovani, famiglie, studenti, è stato brutalmente caricato senza preavviso, accerchiato, represso. Una dimostrazione di forza cieca e sproporzionata, che ha trasformato la città che fu culla della Resistenza in un teatro di intimidazione istituzionalizzata.

Ma non si è trattato solo di un eccesso. Quel che è accaduto a Milano non è un incidente isolato, ma l’espressione plastica di un cambio di paradigma autorizzato e promosso dall’alto. A fare da cornice a questa repressione è infatti il nuovo decreto sicurezza, recentemente approvato dal governo, che amplia in modo allarmante i margini di intervento delle forze dell’ordine, riducendo al contempo gli spazi di agibilità democratica. Un provvedimento che, dietro la retorica della “legalità”, appare sempre più come un meccanismo di controllo politico del dissenso.

Il decreto, tra le altre cose, estende i poteri di fermo, inasprisce le sanzioni per chi manifesta, introduce misure preventive che ricordano sinistramente l’epoca dei fogli di via e delle schedature ideologiche. Non si tutela la sicurezza: si normalizza la repressione. E il messaggio è chiaro: chi dissente, chi contesta, chi alza la voce, deve sapere che rischia.

A rendere ancora più opaco questo quadro, la presenza tra gli agenti in borghese di individui con simboli inequivocabili: felpe con il logo degli “Orzeł Skulls”, gruppo legato all’estrema destra polacca e a frange neonaziste, e l’emblema di “Narodowa Duma”, che richiama pulsioni nazionaliste e xenofobe. È legittimo chiedersi: chi sono oggi coloro a cui viene affidato il compito di “mantenere l’ordine”? Quali valori portano con sé? E soprattutto, in nome di quale Stato agiscono?

Il decreto sicurezza sembra voler ridefinire il concetto stesso di ordine pubblico, sostituendo la tutela dei diritti con la logica dell’intimidazione. Le forze dell’ordine, da garanti della convivenza civile, rischiano di essere trasformate in strumenti per zittire il dissenso, sorvegliare il pensiero critico, reprimere le mobilitazioni sgradite.

La domanda che dobbiamo porci è urgente: che democrazia è quella in cui manifestare diventa un atto di coraggio, in cui la libertà di espressione viene compressa, in cui lo Stato smette di proteggere e comincia a spaventare?

La risposta, oggi più che mai, deve venire da un’opinione pubblica attenta, da un giornalismo libero e da una cittadinanza consapevole, che si rifiuti di normalizzare la violenza del potere. Perché la libertà non si perde tutta insieme: si sgretola un diritto alla volta, un silenzio alla volta, finché il rumore dell’abuso diventa l’unico suono possibile.

 


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