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Cosa ci racconta la piazza del 5 aprile

Ci sono giornate che lasciano un segno. Giornate in cui una piazza non è solo un luogo fisico, ma diventa simbolo di qualcosa di più profondo. Il 5 aprile è stata una di queste. Un giorno in cui migliaia di persone, diverse per età, provenienza e vissuti, si sono ritrovate mosse da un’urgenza comune: dare voce alla pace, in un tempo che sembra aver dimenticato il significato di questa parola.

In un’Europa che scivola sempre più verso logiche di riarmo, dove i bilanci militari aumentano mentre quelli per la sanità, l’istruzione e il lavoro arretrano, questa piazza ha gridato il suo dissenso.

Ha detto no alla guerra, no ai tecnocrati che trattano la pace come un ostacolo e non come un orizzonte. Ha detto sì a un’Europa dei diritti sociali, fondata sulla dignità delle persone, non sulla paura e sulla militarizzazione.

E non è solo questione di numeri, sebbene la partecipazione sia stata imponente. È questione di presenza, di volontà, di coscienza che si risveglia.

Chi cerca distinguo sbaglia. In questa fase storica, in cui il rischio di normalizzare il conflitto e la militarizzazione è sempre più presente, è fondamentale riconoscere e valorizzare ciò che ci unisce, non ciò che ci divide. C’è bisogno di mettere in comune questa enorme potenzialità rappresentata dai mille volti colorati dai colori della pace, dalle bandiere, dagli striscioni, dalle voci che si sono alzate all’unisono per dire che un altro mondo è possibile. Il resto sono solo artifici retorici e politici che non fanno bene a un movimento per la pace che, finalmente, incomincia a darsi un percorso, a prendere forma, a farsi riconoscere.

Ci sarà tempo per discutere, per confrontarsi, anche per sottolineare le differenze. Intanto, però, cogliamo questa occasione. Perché la storia ci insegna che è nei momenti di convergenza e mobilitazione che i popoli cambiano le cose.

L’Italia, storicamente terra di movimenti, ha spesso anticipato i tempi. Lo ha fatto ieri, lo può fare ancora oggi. Ma questa volta non può farlo da sola. Il segnale che parte da qui può diventare un appello all’intera Europa: smettiamo di prepararci alla guerra e cominciamo a costruire la pace. Non nelle dichiarazioni di principio, ma nei bilanci pubblici, nelle scelte politiche, nella cultura quotidiana.

La piazza del 5 aprile ce lo dice chiaramente: c’è fame di giustizia, di pace, di democrazia reale. La spinta che arriva da questa mobilitazione può essere un volano per un’Europa che deve ancora scegliere da che parte stare. Un’Europa che deve decidere se continuare a investire in armi, muri e sorveglianza, oppure se iniziare finalmente a investire in welfare, diritti, solidarietà, cultura.

L’opposizione alla guerra, ai kit di sopravvivenza invece che ai kit di convivenza, è appena cominciata. Ma le piazze, se restano vive, possono fare la differenza. Tocca a noi mantenerle tali, alimentarle, moltiplicarle.


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