C’è un Sud che si svuota in silenzio, un centimetro alla volta. Ogni anno un paese chiude un’aula, un quartiere spegne una finestra, una famiglia prepara valigie che sanno di resa. I numeri del recentissimo rapporto Svimez non sono statistiche: sono il referto di una ferita aperta. La Calabria, con uno dei più alti tassi di emigrazione del Paese, si avvia — se nulla cambia — verso un 2050 più povero di 356mila persone. Un’emorragia umana che lacera il tessuto civile ed economico della regione.
Ma guai a dire che questo è un destino. Guai ad accettare l’idea che il Sud sia condannato a perdere i suoi giovani come una tassa naturale da pagare alla modernità. La verità, che dobbiamo avere il coraggio di pronunciare, è che lo spopolamento non è un fenomeno neutro: è la conseguenza diretta di precise responsabilità politiche, economiche e culturali. È il risultato di decenni in cui la Calabria è stata trattata come un serbatoio di voti, non come un territorio da far crescere; come periferia da usare, non come comunità da valorizzare.
Le radici storiche della fuga lo dimostrano: povertà rurale, mancanza di lavoro stabile, crisi dell’agricoltura, poteri locali incrostati di clientele. Nulla di tutto questo è inevitabile. Tutto, al contrario, è il prodotto di scelte — o non scelte — che hanno mantenuto l’economia in ostaggio e la società sotto ricatto. E mentre i migliori se ne vanno, il Mezzogiorno perde non solo capitale umano, ma anche servizi essenziali: scuole che chiudono perché non ci sono bambini, uffici postali e sportelli bancari soppressi perché “non conviene”, interi territori che restano senza voce. È così che lo spopolamento diventa degrado sociale, e il degrado diventa terreno fertile per chi vive di controllo, paura e dipendenza.
E allora questo è il tempo di una parola chiara: restare è un atto politico. Non il frutto della rassegnazione, ma una scelta di resistenza civile. E partire — quando si parte perché costretti — non è un tradimento, ma la denuncia più eloquente del fallimento di chi avrebbe dovuto creare futuro e non lo ha fatto.
Serve un nuovo patto militante per la Calabria: un movimento culturale e civico che dica ad alta voce che questa terra non è un ventre da svuotare, ma un luogo da ricostruire. Che rivendichi investimenti veri, lavoro non assistito ma produttivo, infrastrutture degne di un Paese europeo, diritti di cittadinanza che non siano concessi ma garantiti. Che rompa definitivamente con le logiche clientelari che soffocano ogni energia viva.
Perché il Sud non ha bisogno di compassione né di retorica. Ha bisogno di coraggio, di organizzazione, di una volontà collettiva che trasformi la rabbia in progetto.
La Calabria non si salva contando quanti restano, ma decidendo di non permettere più che altri scelgano per lei il proprio destino.
E allora sì, oggi più che mai, è il tempo di scegliere da che parte stare: dalla parte di chi continua a svuotare la regione, o da quella di chi pretende di riempirla di vita, di diritti, di futuro.
Il resto è solo rassegnazione travestita da realismo.
E non ce lo possiamo più permettere.~~~
