Quattro anni di governo Occhiuto avrebbero dovuto segnare la svolta. Si parlava di una sanità da rifondare, di infrastrutture da modernizzare, di un rapporto nuovo tra istituzioni e cittadini. La realtà, sotto gli occhi di tutti, racconta invece un’altra storia: quella di un immobilismo che ha finito per trasformarsi in inerzia, di promesse rimaste lettera morta e di una Calabria che continua a vivere in emergenza permanente.
La sanità, che doveva essere la priorità assoluta, rimane una ferita aperta: ospedali in affanno, servizi inadeguati, lunghe liste d’attesa e cittadini costretti a spostarsi fuori regione per ricevere cure che dovrebbero essere un diritto garantito sul territorio. Non è solo una questione tecnica o amministrativa: è una questione di dignità. Quando la salute diventa un percorso a ostacoli, la fiducia nelle istituzioni si sgretola, e la percezione di abbandono cresce.
Sul fronte delle infrastrutture e del lavoro, le attese di rilancio si sono infrante contro una realtà immobile. Le strade restano spesso impercorribili, i collegamenti ferroviari e aerei limitati, lo sviluppo industriale stenta a decollare. I giovani calabresi, ancora una volta, si trovano davanti a un bivio doloroso: restare e accontentarsi di opportunità limitate, oppure partire in cerca di un futuro altrove. È il dramma dello spopolamento, che priva la regione delle sue energie migliori e rafforza l’idea di una terra condannata a non cambiare mai.
Questo immobilismo rischia di avere un effetto paradossale e persino perverso: la possibilità che Occhiuto ottenga una riconferma non grazie ai risultati, ma a causa dell’astensione. Un consenso non frutto di scelte convinte, ma dell’indifferenza, della sfiducia e della rinuncia alla partecipazione. Sarebbe una vittoria per inerzia, non per merito: e una vittoria del genere non sarebbe altro che la premessa di un nuovo ciclo di stallo.
In questo quadro si colloca la figura di Pasquale Tridico. Non rappresenta, è bene dirlo, una soluzione perfetta. Alcune alleanze, alcune candidature provenienti dal passato hanno finito per smorzare la carica innovativa che avrebbe potuto caratterizzarne la proposta. Tuttavia, il nodo della scelta che attende i calabresi non è tra perfezione e imperfezione, ma tra immobilismo e cambiamento. Tra l’accettazione di un presente che ha già dimostrato i suoi limiti e l’apertura, anche incerta, verso una prospettiva diversa.
È questa la dicotomia cruciale: restare fermi o tentare una strada nuova. Restare fermi significa rassegnarsi a un sistema sanitario che non cura, a infrastrutture che non collegano, a un mercato del lavoro che non offre speranza. Tentare una strada nuova non garantisce miracoli, ma può almeno aprire spazi di possibilità, riaccendere una fiducia sopita, invertire la tendenza all’arretramento.
La Calabria non ha bisogno di perfezione, ma di movimento. Non di promesse solenni, ma di un inizio, di un segnale che dica che il futuro non è già scritto. In un momento in cui i diritti fondamentali dei cittadini vengono messi alla prova ogni giorno, restare immobili equivale a condannarsi a un declino silenzioso.
Il futuro della regione dipenderà dalla capacità collettiva di compiere una scelta coraggiosa. Non la scelta del candidato ideale – che non esiste – ma quella di una direzione diversa. Perché il vero pericolo non è il rischio di un cambiamento imperfetto: il vero pericolo è abituarsi all’assenza di cambiamento, trasformando l’immobilismo in destino.