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Militarizzazione globale e disincanto: il futuro negato della pace

Il  recente  vertice in Alaska tra Putin e Trump non è stato  un normale incontro diplomatico:  la messinscena plastica di un mondo che ha scelto la politica di potenza come unico linguaggio. Due leader che si proclamano rivali ma che, nello specchio dell’imperialismo, finiscono per somigliarsi. Al di là delle differenze di bandiera e di propaganda, il messaggio che proiettano è lo stesso: ciò che conta non è il diritto, non è la cooperazione, non è la pace, ma la forza bruta.  Un vertice  in cui si è consacrata una regola: la forza domina, la forza decide, la forza è misura e strumento di legittimità.

Di fronte a questo spettacolo, l’Europa appare smarrita. Per decenni si è raccontata come “forza di pace”, come avanguardia del multilateralismo e della mediazione. Oggi quella narrazione si è sgretolata. La guerra in Ucraina e le tensioni globali hanno offerto il pretesto per un salto di paradigma: i governi moltiplicano i bilanci militari, l’industria bellica diventa settore trainante, la società civile è educata a considerare il riarmo come condizione naturale di sopravvivenza. La “difesa comune” si traduce, in realtà, in un nuovo ciclo di militarizzazione che permea l’economia, la politica e persino l’immaginario collettivo.

Nell’America di Trump, intanto, si compie un altro passaggio cruciale. La democrazia liberale, presentata fino a ieri come antidoto all’“autocrazia” e come strumento di emancipazione, si svuota progressivamente di sostanza. La retorica dei “valori occidentali” viene sostituita dal culto della potenza, dal linguaggio dello scontro, dalla spettacolarizzazione della violenza. Dazi economici usati come manganelli geopolitici, flotte nucleari esibite come trofei, milizie travestite da “eroi della frontiera” che pattugliano le strade a caccia di migranti: è la società intera a piegarsi al paradigma della forza.

Il risultato è devastante. Sul piano internazionale, il confronto tra imperi produce solo instabilità permanente, conflitti latenti e nuove guerre per procura. Sul piano interno, le democrazie si riducono a gusci vuoti, incapaci di tradurre i propri principi in condizioni materiali di giustizia, uguaglianza e libertà. Le libertà civili diventano privilegio condizionato; i diritti sociali si erodono in nome della “sicurezza”; le disuguaglianze si amplificano.

Eppure, la vera urgenza del nostro tempo non ha nulla a che fare con i muscoli dell’impero. Il cambiamento climatico, le migrazioni forzate, la redistribuzione delle risorse, l’accesso universale a sanità, istruzione, lavoro dignitoso: sono queste le sfide che definiscono il futuro dell’umanità. Ma di fronte a esse, i governi preferiscono la scorciatoia della forza. Investire in armi è più semplice che investire in giustizia sociale; militarizzare l’economia è più redditizio che trasformarla in senso ecologico; alimentare la paura è più facile che costruire solidarietà.

Ecco perché oggi la pace non è un’utopia ingenua, ma un atto di radicale realismo politico. Rifiutare la logica dell’impero significa rifiutare l’idea che il mondo sia una grande arena gladiatoria, dove i popoli vengono sacrificati sull’altare della potenza. Significa opporsi alla normalizzazione della guerra, denunciare la conversione delle società in macchine belliche, rivendicare il diritto a una sicurezza fondata non sulle armi, ma sui diritti, sulla cooperazione, sulla giustizia.

L’impero del disincanto, che abbiamo visto  sfilare in Alaska, vuole convincerci che non ci siano alternative: che la pace sia un lusso, che la forza sia inevitabile, che la violenza sia la sola grammatica possibile. È qui che occorre reagire. Dire che non è così. Affermare che la pace è il più alto degli atti politici, che la giustizia sociale è l’unico vero fondamento della libertà, che l’umanità non è condannata a vivere sotto il giogo della forza.

Un nuovo linguaggio militante deve nascere da questa consapevolezza. Non un pacifismo remissivo, ma un impegno radicale per smontare le logiche dell’impero, per svelarne la nudità, per costruire una politica che non abbia paura di dire che il mondo può – e deve – essere altro.


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