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Il diritto internazionale è il volto legale dell’ipocrisia globale

Il diritto internazionale è il grande inganno del nostro tempo. Si presenta come la voce della ragione contro la guerra, la regola che frena gli abusi, la promessa di un mondo dove tutti gli stati — e tutti i popoli — sono uguali. Ma basta grattare la superficie per vedere cosa c’è sotto: un dispositivo di potere che legittima diseguaglianze, normalizza la violenza degli stati forti e schiaccia ogni forma di soggettività che non sia sovrana, armata o già riconosciuta.

È un diritto nato per regolare l’imperialismo, non per superarlo. Dietro le sue formule neutre si cela la geografia politica del mondo coloniale, mai davvero tramontata. Le sue origini sono lì, nei trattati che dividevano il pianeta tra “civili” e “selvaggi”, nei codici che decidevano chi aveva diritto al suolo e chi no, chi poteva parlare come soggetto e chi doveva tacere o essere messo a tacere. Oggi si è cambiata la lingua, ma non la logica: i “mandati” sono diventati “interventi umanitari”, le “missioni civilizzatrici” si chiamano “peacekeeping”, ma l’arbitrio resta. E le vittime sono spesso le stesse: popoli spogliati, territori saccheggiati, comunità criminalizzate.

Il diritto internazionale predica la parità tra gli stati, ma nella pratica inchina il capo davanti a ogni egemonia. Gli Stati Uniti bombardano un paese? È “sicurezza collettiva”. La Palestina resiste all’occupazione? È “terrorismo”. Il Sud globale chiede giustizia storica? È “instabilità”. Il Nord globale difende i propri privilegi? È “ordine internazionale basato sulle regole”. Ma chi scrive queste regole? Chi decide chi è legittimo e chi no? Chi ha il potere di violarle senza mai pagare?

E mentre tutto questo accade, il diritto internazionale finge di essere neutrale, tecnico, al di sopra delle parti. Ma non lo è. È un diritto schierato, selettivo, costruito per garantire che l’ingiustizia globale continui a camminare su gambe legali. È il diritto dei trattati firmati sotto minaccia, delle risoluzioni ONU a senso unico, dei tribunali che giudicano solo i vinti e mai i vincitori. È il diritto che nega la parola ai popoli senza stato, alle lotte indigene, alle rivolte che non rientrano nei confini della diplomazia autorizzata.

E allora basta con le illusioni. Il diritto internazionale, così com’è, non è uno strumento di emancipazione. È parte del problema. Non serve a smantellare l’ingiustizia globale: serve a gestirla, a renderla tollerabile, a darle una patina di legalità.

Chi lotta per la giustizia globale, chi immagina un mondo davvero decolonizzato, non può accontentarsi di questa impalcatura. Va smascherata, va contestata, va sovvertita. Perché un diritto che non riconosce i popoli oppressi, che non protegge i deboli, che non rompe con l’ordine coloniale — non è un diritto. È solo un’altra forma di dominio.


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