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Riarmo è resa: difendiamo la pace, non i bilanci militari

Come previsto, al vertice dell’Aia la NATO ha deciso: 5% del PIL per il riarmo. Un impegno titanico, che per l’Italia significa trovare circa 700 miliardi di euro in dieci anni. Unica eccezione, la Spagna — che almeno ha avuto il coraggio di opporsi. Giorgia Meloni, invece, ha firmato senza esitazioni, ribadendo la fedeltà a un atlantismo sempre più aggressivo e autoreferenziale.

La portata della scelta è enorme. E non solo per le cifre. Si tratta di un mutamento profondo della gerarchia delle priorità politiche. Mentre da anni ci sentiamo dire che non ci sono soldi per la scuola, per gli ospedali, per il lavoro stabile, per l’ambiente o per le pensioni, ecco che improvvisamente centinaia di miliardi diventano disponibili. Basta che servano a costruire un’economia di guerra.

E qui sta il cortocircuito ideologico: quella stessa spesa pubblica che veniva demonizzata quando destinata al welfare diventa ora virtuosa e perfino desiderabile, purché vada in mano all’industria bellica. I media già parlano di “nuove opportunità occupazionali”, di “rilancio dell’innovazione tecnologica”, di “sviluppo delle infrastrutture strategiche”. Siamo davanti a un keynesismo travestito da patriottismo armato: si investe, sì, ma per produrre armi, non diritti.

E non si dica che “non c’è alternativa”. È una menzogna politica. L’alternativa c’è, ma implica scelte coraggiose: tassare le grandi ricchezze, colpire le rendite speculative, rinegoziare le alleanze internazionali in chiave diplomatica e non militare. Non è la tecnica a mancare: è la volontà. E il prezzo lo pagheranno i soliti: i precari, i lavoratori, le famiglie, i giovani, gli anziani. Pagheremo con l’erosione del welfare, l’aumento delle tasse indirette, il sacrificio dei beni comuni.

Dietro la retorica del “si vis pacem para bellum” si nasconde un messaggio chiaro: ci si prepara non alla pace, ma alla guerra permanente. Una guerra che diventa sistema economico, giustificazione ideologica, necessità politica. Una guerra che sottrae risorse e speranze, mentre alimenta insicurezza e tensioni in un mondo già destabilizzato.

E allora, a chi parla di “nuova stagione di sviluppo” attraverso il riarmo, rispondiamo con forza: no, non accettiamo questa deriva. Non è progresso, è regressione. Non è sicurezza, è servitù. È il trionfo della paura sul futuro, della forza sul diritto, dell’obbedienza alla logica delle armi su ogni progetto di società giusta, equa, sostenibile.

L’Italia, l’Europa, hanno bisogno di ben altro: di scuola, di salute, di casa, di lavoro dignitoso, di conversione ecologica. Abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale, non di missili. Di diritti, non di deterrenza.

Chi oggi firma questi accordi si assume una responsabilità storica gravissima. Sta barattando il futuro delle prossime generazioni con un’illusione di potenza che non ci rende più liberi, ma solo più esposti, più poveri, più soli.

La pace non si costruisce con i cannoni. Si costruisce con la giustizia sociale. E con il coraggio, oggi più che mai necessario, di dire: no alla guerra


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