In un sabato di giugno, con il termometro che sfiora i 35 gradi, la città di Cosenza ha scelto di non restare in silenzio. Poteva essere una giornata come tante, invece è diventata un grido collettivo di dignità e coscienza. Centinaia di persone hanno attraversato le strade della città per dire con forza che ciò che sta accadendo in Palestina non è solo un dramma umanitario: è un genocidio. E che non si può restare a guardare.
In un mondo sempre più anestetizzato davanti all’orrore, dove il massacro di un popolo viene raccontato con il linguaggio ipocrita della “difesa” o della “sicurezza nazionale”, Cosenza ha scelto la parte giusta della Storia. Ha scelto di chiamare le cose con il loro nome. Ha scelto di rompere il silenzio complice che spesso avvolge l’Occidente, quando l’aggressore è uno Stato potente e l’aggredito è un popolo senza Stato, senza esercito, senza voce.
L’apertura di un nuovo fronte di guerra da parte del governo israeliano — come se non bastassero i decenni di occupazione, di apartheid, di bombardamenti su Gaza — è l’ennesimo atto di arroganza coloniale, l’ennesima pagina nera scritta col sangue di civili, di bambini, di intere famiglie rase al suolo. Parlare oggi di “conflitto” è una mistificazione: non c’è simmetria tra chi occupa e chi resiste. Tra chi ha carri armati e chi ha solo le chiavi delle case da cui è stato cacciato.
Ecco perché la manifestazione di Cosenza non è stata solo un gesto simbolico, ma un atto politico e morale di rottura. In un Sud troppo spesso raccontato come marginale, passivo, piegato da altre emergenze, si alza invece un grido che sfida il torpore, che smaschera l’ipocrisia, che si fa carne e voce di una comunità che rifiuta l’indifferenza.
Solidarietà non è solo una parola da sventolare. È una pratica, è una scelta di campo. È stare accanto a chi resiste, a chi lotta, a chi sogna la libertà anche sotto le bombe. Ed è anche denunciare il ruolo complice del nostro governo, che continua a stringere rapporti con Israele, a vendere armi, a mettere il veto su qualsiasi risoluzione internazionale che parli di cessate il fuoco o diritti dei palestinesi.
A chi dice che “è troppo complicato”, rispondiamo che non è complicato scegliere da che parte stare. Lo sapevano bene quelli che manifestavano contro l’apartheid in Sudafrica, lo sapevano i partigiani che si opponevano al nazifascismo, lo sanno oggi coloro che, a Cosenza come in ogni altra città del mondo, alzano la voce per Gaza, per Jenin, per Rafah, per ogni villaggio palestinese sotto assedio.
In un tempo in cui la verità è manipolata, in cui l’ingiustizia viene normalizzata, manifestare è un atto rivoluzionario. Cosenza lo ha fatto. E ha dimostrato che la solidarietà, quando è vera, non ha paura del caldo, dell’apatia, della repressione. Perché la lotta del popolo palestinese è anche la nostra. E la Palestina libera è un orizzonte di giustizia che ci riguarda tutti.