Lo sciopero del 22 settembre, convocato con lo slogan “Blocchiamo tutto”, non è semplicemente una data sul calendario delle mobilitazioni. È un passaggio di fase, un’occasione che può segnare una svolta per i movimenti sociali e per chi, da anni, cerca di opporsi a un sistema che combina guerra, precarietà e repressione. Non si tratta solo di scioperare, ma di mettere in campo una pratica di rottura che colpisca direttamente i nervi vitali del potere: le catene logistiche che garantiscono il flusso di merci, profitti e armi.
Viviamo in un tempo in cui la guerra è diventata normalità, in cui il genocidio viene giustificato come “necessità geopolitica” e la precarietà come condizione inevitabile. Il governo Meloni incarna perfettamente questa torsione: da un lato il rilancio della spesa militare e della finanziaria di guerra, dall’altro la stretta securitaria e repressiva che criminalizza chi protesta, chi migra, chi si oppone. Ma non si tratta solo di un problema nazionale: siamo di fronte a un regime globale che si fonda sulla violenza armata, sull’estrazione senza limiti e sul controllo dei corpi.
In questo contesto, il 22 settembre rappresenta molto più di una protesta simbolica. Bloccare significa rifiutare l’inerzia, rompere con l’attesa, dire con chiarezza che non siamo disposti ad accettare il presente così com’è. Significa costruire un terreno comune che superi la frammentazione degli ultimi anni e ricomponga un immaginario di conflitto capace di parlare a tante e tanti, di dare voce a quella rabbia che attraversa i territori, i luoghi di lavoro, le scuole e le università.
La vera sfida è questa: non fermarsi a un momento di reazione, ma aprire scenari politici inediti. Perché ogni lotta isolata rischia di essere neutralizzata o riassorbita, mentre ciò che serve è un processo capace di unire resistenze diverse in un orizzonte comune. Non basta dire “no” alla guerra o “no” alla precarietà: bisogna immaginare e praticare insieme un “sì” a un futuro diverso, costruito attraverso la forza organizzata e conflittuale di chi non si arrende.
Il 22 settembre può essere il punto di saturazione di una lunga fase di attesa, ma anche l’inizio di un percorso nuovo. Nei porti e oltre i porti, nelle città e nei luoghi di vita, i blocchi devono diventare l’occasione per mettere in crisi dispositivi concreti del comando. Non solo per fermare temporaneamente le merci, ma per aprire crepe reali nella macchina che sostiene guerra e sfruttamento.
La misura è colma. È colma di orrore e complicità, ma anche di possibilità. Possibilità di trasformare la rabbia in forza collettiva, possibilità di ricostruire un terreno politico radicale e non subalterno, possibilità di ridare centralità a pratiche conflittuali che sappiano incidere davvero sul presente.
Sta a noi decidere se raccogliere questa possibilità o lasciarla svanire. Bloccare oggi significa aprire domani: non un semplice gesto di protesta, ma l’affermazione di una volontà di cambiamento che non vuole più aspettare.
Il tempo stringe. Non ci sono alibi. Il momento è adesso.