Catania, Genova, le quaranta imbarcazioni che puntano verso Gaza: sono immagini che raccontano di un mondo che non si piega, di una solidarietà globale che rompe i muri del silenzio. È questa forza collettiva che ha messo all’angolo Netanyahu, che ha costretto il potere israeliano a mostrare il suo volto per quello che è: un sistema che non ha altro strumento se non la violenza per mantenersi in piedi.
Trema Netanyahu, non per un calcolo militare, ma per la verità che esce da Gaza. Trema di fronte alle voci che si sollevano ovunque, ai porti che si riempiono di navi cariche di coraggio, alle piazze che gridano la fine dell’apartheid. Trema perché la sua narrazione si sgretola, perché le immagini dei bambini sotto le macerie hanno più forza della sua propaganda, perché il mondo sta vedendo.
La risposta è la solita: escalation, repressione, guerra. Non perché sia inevitabile, ma perché è l’unico linguaggio che conosce. È una questione di immagine, di reputazione, di potere. Per questo è disposto a giocarsi tutto – anche l’ultimo brandello di umanità – pur di non crollare. Ma a pagare sono sempre loro: i civili di Gaza, le famiglie che non hanno più case, i bambini che imparano a riconoscere il suono dei droni prima ancora delle lettere dell’alfabeto.
Ecco perché oggi non basta indignarsi. Bisogna scegliere da che parte stare. La solidarietà non è un gesto simbolico, è un atto politico che scuote i regimi, che fa vacillare i tiranni. Le navi che attraversano il Mediterraneo non portano solo aiuti, portano un messaggio: la vostra guerra non parla per noi.
Sì, possiamo solo augurarci che questo sistema cada. Non sarà domani, non sarà indolore, ma la storia non perdona i carnefici. Ogni manifestazione, ogni boicottaggio, ogni voce che rompe l’isolamento è un colpo al muro dell’oppressione. La caduta sarà il frutto di questa pressione globale, e la speranza è che arrivi prima che altre vite vengano spezzate.
Oggi Gaza è il cuore del mondo. E il mondo deve continuare a battere per Gaza.