Come si costruisce ideologicamente il diritto di uccidere in nome della libertà
“Difendere la civiltà a colpi di bombe è il cuore della propaganda imperialista.”
— anonimo palestinese, sotto le macerie.
Il rovescio della civiltà
Da Gaza a Baghdad, da Tripoli a Kabul all’Iran, il copione è sempre lo stesso. C’è un Occidente “civilizzato” che dice di portare la democrazia, i diritti, la pace. E c’è un “altro mondo” — arabo, nero, musulmano, orientale — descritto come pericoloso, irrazionale, violento, da salvare o da punire. Ogni bomba, ogni invasione, ogni embargo ha un volto umano nel racconto occidentale: si bombarda per liberare, si uccide per difendersi, si occupa per costruire.
Ma questa narrazione è una menzogna. Una menzogna utile. Serve a legittimare la violenza imperiale e a farla passare per giustizia. Il mito dell’Occidente buono è il carburante ideologico delle guerre moderne. E oggi, nel sostegno incondizionato alle politiche belliciste israeliana, torna più tossico e più pericoloso che mai.
L’invenzione dell’“altro barbaro”
Non esiste un Occidente “neutrale”. Fin dalla conquista coloniale, l’Europa si è costruita per opposizione: bianca contro nera, razionale contro primitiva, cristiana contro pagana, maschile contro femminile, moderna contro tribale. È questa logica binaria che Edward Said ha chiamato Orientalismo: la costruzione di un “altro” da sé che giustifica il dominio. Non si conquista l’Oriente, lo si “illumina”. Non si reprime l’Africa, la si “civilizza”. Non si occupa la Palestina, la si “normalizza”.
Questa retorica è ancora viva. Cambiano le parole — oggi si parla di “terrorismo”, “sicurezza”, “valori occidentali” — ma la struttura resta identica. L’altro è pericoloso e va neutralizzato. Il nostro potere è naturale, legittimo, salvifico. Se siamo noi a farlo, è giusto.
Le guerre buone: dal Kosovo a Gaza
Ogni generazione di imperialismo ha la sua “guerra giusta”. Negli anni ’90 fu il Kosovo, la prima guerra NATO presentata come “umanitaria”. Negli anni 2000, Afghanistan e Iraq: liberare le donne, rovesciare i dittatori, distruggere le armi chimiche (mai esistite). Poi la Libia. E oggi, la Palestina e l’Iran. Nel caso della Palestina Israele “si difende” da un popolo che non ha esercito, marina né Stato.
Dietro queste operazioni si nasconde la vera funzione dell’ideologia occidentale: autorizzare la violenza, purché avvenga sotto la bandiera della democrazia. I risultati? Devastazione, destabilizzazione, centinaia di migliaia di morti. Nessuna pace, nessuna libertà. Solo nuovi mercati per le armi, nuove basi NATO, nuovi nemici da combattere.
Chi può uccidere e chi può solo morire
Il potere non si limita a governare la vita: decide chi ha diritto alla vita. Achille Mbembe lo chiama necropolitica: il potere sovrano si esercita scegliendo chi può essere sacrificato. E in questo schema, le vite dei popoli colonizzati non contano. I civili palestinesi sono “scudi umani”. I bambini afghani “errori tragici”. Gli arabi iracheni “danni collaterali”.
Questa gerarchia della vita è al centro dell’immaginario occidentale. Le nostre vittime sono tragedie. Le loro, statistiche. Quando muoiono “da noi”, è un attacco alla civiltà. Quando muoiono “da loro”, è il prezzo del progresso. E così, uccidere diventa un atto morale — se a farlo siamo noi.
La macchina della propaganda
Questa menzogna non regge da sola. Serve una macchina culturale che la produca e la ripeta. I media occidentali raccontano ogni guerra con un copione già scritto: Israele “reagisce”, la Palestina “attacca”. Gli USA “intervengono”, l’Iraq “si ribella”. Le immagini si censurano, i morti si selezionano, le parole si distorcono. La parola “genocidio” si usa solo quando non riguarda gli alleati.
Anche la cultura pop è parte del gioco. Nei film, nelle serie, nei telegiornali, l’eroe è bianco, l’invasore è arabo, la donna musulmana ha bisogno di essere salvata. I libri di storia parlano di “esplorazioni”, non di massacri. Le ONG piangono per l’Ucraina ma tacciono su Gaza. Tutto contribuisce a un’unica narrazione: noi siamo il Bene
Rompere la narrazione
Chi vuole lottare contro la guerra deve prima di tutto lottare contro questo linguaggio. Non si tratta di conflitti, ma di occupazioni. Non si tratta di democrazie in difficoltà, ma di potenze coloniali in crisi. Non si tratta di errori, ma di strategie.
Rompere il mito dell’Occidente buono significa stare con chi resiste. Con i popoli sotto embargo, con i migranti criminalizzati, con chi lotta nei territori occupati, nei porti chiusi, nelle fabbriche d’armi. Significa smascherare il ruolo dei governi europei, complici del massacro. Significa chiamare le cose con il loro nome.
L’Occidente non è il centro del mondo
Il mito dell’Occidente buono è l’ultima maschera di un impero in declino. La sua superiorità morale è un’illusione tossica. La sua “civiltà” si fonda su secoli di sangue, schiavitù e saccheggio. E oggi, mentre Gaza brucia e il mondo guarda, quella maschera cade.
Non si tratta di essere anti-occidentali, ma di essere anti-imperialisti. Di rifiutare la complicità. Di costruire un altro linguaggio, un’altra politica, un’altra solidarietà. Un mondo in cui la vita di un bambino palestinese valga quanto quella di un bambino europeo. Un mondo dove nessuno possa più uccidere impunemente in nome della pace.