Benjamin Netanyahu non è semplicemente il primo ministro di Israele. È, oggi, l’emblema tragico e pericoloso di un’epoca in cui il potere si mantiene non malgrado la guerra, ma grazie ad essa. Da Gaza a Teheran, passando per il Libano, la Siria, l’Iraq e lo Yemen, la sua strategia appare con sempre maggiore chiarezza: aprire fronti ovunque, trasformare il conflitto in stato naturale, rendere impossibile ogni forma di opposizione interna sotto il ricatto della sicurezza nazionale.
Lungi dall’essere una risposta a minacce esterne, questa guerra permanente è il prodotto di un calcolo politico tanto spietato quanto disperato: Netanyahu combatte per sopravvivere, non per Israele. Sopravvivere agli scandali giudiziari che lo inseguono da anni, alle fratture sociali che attraversano il suo Paese, alle proteste di massa che hanno riempito le piazze contro la sua riforma autoritaria della giustizia.
Gaza ne è la rappresentazione più tragica. Dopo l’atroce attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, la risposta israeliana ha rapidamente travalicato il confine tra legittima difesa e punizione collettiva. Un massacro sistematico, che ha fatto migliaia di vittime civili, distrutto ospedali, scuole, infrastrutture, e ridotto la Striscia a un cumulo di macerie. Il tutto nel silenzio – o nella complicità – della gran parte dell’Occidente, pronto a giustificare ogni crimine con l’ormai abusata formula della “sicurezza di Israele”.
Ma Gaza è solo uno dei tasselli. L’espansione militare si è estesa alla Cisgiordania, sottoposta a un’intensificazione dell’occupazione e della violenza dei coloni. In parallelo, sono proseguiti gli attacchi in Siria e Libano, i raid in Iraq, l’ingerenza nello Yemen, e infine il confronto diretto con l’Iran, con operazioni di sabotaggio, omicidi mirati e bombardamenti preventivi. Un’escalation che non ha nulla di inevitabile: è una scelta. E come tale, ha dei responsabili.
Il più inquietante tra questi è proprio Netanyahu, che ha saputo trasformare la minaccia bellica in architrave del proprio potere. L’assedio perenne, reale o percepito, permette di sospendere la democrazia, zittire l’opposizione, giustificare ogni abuso. Ma ha un prezzo altissimo: Israele oggi è più isolato, più diviso, più insicuro. E il Medio Oriente intero è una polveriera in attesa della scintilla fatale.
A rendere tutto ancora più pericoloso è il trattamento di favore che Israele riceve nel consesso internazionale. Nessuna sanzione, nessuna condanna formale vincolante, nessun controllo sul suo arsenale nucleare, di cui tutti conoscono l’esistenza ma che nessuno osa nominare. Un doppio standard tossico: l’Iran viene minacciato per la sua aspirazione nucleare, mentre Israele può conservarla impunemente, senza firmare il Trattato di non proliferazione. Una logica coloniale e ipocrita, che alimenta solo rancore, instabilità e desiderio di rivalsa.
Ciò che dovrebbe indignare, però, non è solo l’arroganza di Netanyahu, ma la passività colpevole dell’Europa, delle istituzioni internazionali, di una certa intellighenzia liberale che continua a giustificare l’ingiustificabile nel nome di un Occidente buono per definizione, anche quando bombarda, occupa, uccide.
Oggi, più che mai, è necessario ribaltare la narrazione. Denunciare con coraggio il delirio bellicista del governo israeliano. Smascherare la retorica della difesa, quando maschera l’offesa. Ricordare che la pace non è debolezza, ma atto politico radicale. E che chi governa facendo della guerra il proprio strumento di legittimazione, va fermato non con altre armi, ma con la forza della giustizia internazionale, della pressione diplomatica, della mobilitazione dei popoli.
Netanyahu non è l’ultimo baluardo contro il caos. È il caos. È il piromane che accende incendi fingendo di volerli spegnere. Lasciargli mano libera, ancora una volta, significa scegliere deliberatamente di camminare verso il baratro