Il referendum sulla cittadinanza è stato respinto. La destra italiana ha reagito con entusiasmo, celebrando la bocciatura come una vittoria della “difesa dell’identità nazionale”. Ma cosa significa, esattamente, esultare per la negazione di un diritto? Quale visione del Paese si nasconde dietro il rifiuto di riconoscere italiani ed italiane di fatto, cresciuti nelle nostre scuole, nei nostri quartieri, nei nostri luoghi di lavoro?
In realtà, questa “vittoria” non è che l’ennesima affermazione di un paradigma politico fondato sull’esclusione. Un paradigma in cui l’identità è usata come arma per disegnare confini, per selezionare chi ha diritto a esistere pienamente nella Repubblica e chi deve restare ai margini. La cittadinanza non è più vista come strumento di inclusione democratica, ma come privilegio da difendere da un presunto assedio.
Mentre la destra al governo festeggia, il bilancio del suo operato sulle questioni concrete – quelle che riguardano la vita materiale delle persone – è desolante. Soprattutto sul fronte del lavoro, l’assenza di politiche strutturali è palese. Le promesse di “difendere i lavoratori italiani” si sono tradotte in un’accelerazione della precarizzazione: si favoriscono i contratti a termine, si smantellano le tutele, si normalizza il lavoro povero.
Il lavoro, tema centrale in ogni retorica elettorale, è stato sacrificato sull’altare della propaganda. Si preferisce puntare il dito contro i migranti o contro chi chiede diritti civili, piuttosto che assumersi la responsabilità di affrontare la crisi del salario, della sicurezza, della dignità del lavoro. Una strategia cinica, che sposta il conflitto dal piano sociale a quello identitario per evitare il confronto con la realtà economica.
La destra di governo ha fatto dell’identità un rifugio. Incapace di produrre politiche efficaci su sanità, scuola, casa e lavoro, ha scelto di concentrare il discorso pubblico su temi culturali e simbolici: l’“invasione”, il “merito”, la “nazione”. Ma il mito dell’identità nazionale non riempie i frigoriferi, non cura gli anziani, non offre prospettive ai giovani.
In questo quadro, il rigetto della cittadinanza a chi è nato o cresciuto in Italia diventa un atto di conferma ideologica: un segnale lanciato all’elettorato più conservatore, per mostrare coerenza su un fronte simbolico mentre su quello concreto regna l’immobilismo. È la versione italiana della politica identitaria del “meno Stato sociale, più confini”.
Negare la cittadinanza a centinaia di migliaia di giovani non è solo un atto di chiusura: è un errore politico e strategico. È rinunciare a una parte viva e vitale della nostra società. È impoverire la democrazia, rendendola più esclusiva e meno rappresentativa. È consegnare alla marginalità sociale e politica una generazione che potrebbe essere motore di cambiamento, innovazione, cultura.
Questa esclusione produce fratture profonde. Alimenta sfiducia, genera distanza, rompe il patto sociale. Eppure, a fronte di tutto questo, la destra esulta. Perché sa che in assenza di risultati reali, l’unico modo per conservare consenso è trovare un nemico. E se il nemico non c’è, si inventa: sono i migranti, sono i figli degli stranieri, sono gli attivisti, le minoranze, chiunque metta in discussione la narrazione dominante.
Di fronte a tutto ciò, la risposta non può essere solo il rammarico per una sconfitta referendaria. Serve una contro-narrazione forte, una piattaforma politica capace di rimettere al centro l’idea di cittadinanza come diritto universale e il lavoro come fondamento della democrazia. Non possiamo lasciare che la politica si riduca a teatro simbolico, mentre la precarietà divora ogni sicurezza e ogni futuro.
Serve parlare al Paese reale: a chi lavora a partita IVA con redditi da fame, a chi sopravvive con contratti da tre mesi, a chi non si ammala perché non può permetterselo. E serve costruire una maggioranza culturale e sociale attorno all’idea che includere è più giusto, più razionale, più utile per tutti.
Il referendum è stato perso, ma la battaglia per una società più giusta e inclusiva è tutt’altro che chiusa. La destra ha mostrato cosa è: una forza che governa contro i più deboli, che non ha una visione sociale, che esulta solo quando esclude. Sta a noi costruire l’alternativa. Non nei palazzi, ma nella società. Non con lo sdegno, ma con l’organizzazione. Non con la paura, ma con coraggio e visione.