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Il Sud che muore: giovani in fuga e futuro negato

Negli ultimi anni, l’Italia ha assistito a una vera e propria espulsione sistematica dei suoi giovani laureati, costretti a emigrare all’estero per cercare opportunità di lavoro dignitose. Tra il 2011 e il 2023, ben 550 mila giovani tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato il Paese, con oltre 50 mila partenze solo nel 2023. Di questi, il 43% – circa 21 mila giovani – possedeva almeno una laurea triennale. Questi numeri certificano il totale fallimento della classe politica italiana, incapace di offrire prospettive e futuro a chi dovrebbe rappresentare il motore dello sviluppo nazionale.

La politica, principale responsabile di questa emorragia, ha costruito un sistema economico e sociale fondato sulla precarizzazione strutturale del lavoro e su retribuzioni misere. La fuga dei giovani laureati non è il risultato di una scelta, ma una necessità imposta da decenni di scelte miopi, dalla mancanza di investimenti nel capitale umano e da una gestione clientelare delle risorse pubbliche.

La condizione dei giovani lavoratori in Italia è il risultato di precise decisioni politiche. I governi che si sono succeduti hanno favorito un sistema in cui la precarietà non è un fenomeno temporaneo, ma la regola. Contratti a tempo determinato, stage non retribuiti, salari da fame e un mercato del lavoro bloccato hanno trasformato il percorso lavorativo di un giovane italiano in una corsa a ostacoli senza alcuna garanzia di stabilità.

I bassi salari, spesso inferiori alla soglia di sussistenza, sono il frutto di politiche che hanno deliberatamente evitato l’introduzione di un salario minimo, privilegiando gli interessi delle grandi imprese e delle lobby economiche a scapito dei lavoratori. Il risultato è un Paese che sfrutta la forza lavoro giovanile per poi abbandonarla senza prospettive, costringendola a cercare dignità altrove.

Se la condizione dei giovani italiani è drammatica, nel Sud del Paese assume i contorni di una vera e propria catastrofe sociale. Con una disoccupazione giovanile stabilmente sopra il 40% in molte regioni e una cronica assenza di opportunità, il Mezzogiorno si sta trasformando in un deserto demografico, svuotato delle sue migliori energie e incapace di offrire alternative.

Questo abbandono è il prodotto di una scelta politica consapevole. Il Mezzogiorno è stato lasciato in uno stato di dipendenza, con politiche assistenzialiste e clientele elettorali che hanno arricchito pochi e impoverito tutti gli altri.

Le risorse del PNRR, che avrebbero dovuto rappresentare un’opportunità storica di rilancio, sono state gestite con la solita logica dell’improvvisazione e della frammentazione, senza un piano organico per creare posti di lavoro stabili e ben retribuiti. Intanto, intere generazioni abbandonano la loro terra natale, lasciandosi alle spalle città svuotate e territori sempre più marginalizzati.

Il fallimento della politica nel Sud non è un caso, ma la conseguenza di un sistema che si autoalimenta. La gestione del potere è rimasta nelle mani di una classe dirigente incapace e corrotta, che ha sfruttato il sottosviluppo per consolidare il proprio controllo elettorale. Le opportunità di crescita vengono bloccate da meccanismi clientelari che premiano la fedeltà politica anziché il talento e la competenza.

Anziché costruire un futuro per le nuove generazioni, si è preferito garantire il controllo su un elettorato dipendente dai sussidi e dalla precarietà, mantenendo il Sud in una condizione di perenne emergenza. Questa strategia ha portato a una spaccatura sempre più profonda tra Nord e Sud, con quest’ultimo destinato a un lento e inesorabile declino.

Il Mezzogiorno è la prova più evidente del fallimento della politica: un territorio sistematicamente privato di opportunità e ridotto a bacino elettorale per chi sfrutta la disperazione altrui per mantenere il potere. Se non si cambia radicalmente rotta, l’Italia si avvierà a diventare un Paese di vecchi e sfruttati, mentre i suoi giovani continueranno a costruire il proprio futuro altrove. E questa, prima ancora che una sconfitta economica, è una vergogna storica di cui la classe dirigente dovrà assumersi la responsabilità di fronte alle generazioni future.


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