Quando la Sicurezza è sinonimo di Repressione e il Governo si scaglia contro la rete eversiva dei Beni Comuni.
La questione dei beni comuni e degli spazi liberati tocca il cuore del nostro vivere insieme. Non si tratta solo di proprietà, di titolarità o di regole scritte nei codici, ma di cosa significa davvero essere parte di una comunità. Chi ha diritto a uno spazio? Chi decide come usarlo? E, soprattutto, che cosa significa “bene comune” in un’epoca in cui la sicurezza viene spesso brandita come una clava per chiudere, reprimere, sgomberare?
Gli spazi liberati sono luoghi di incontro, di creazione, di resistenza. Sono pezzi di città che le persone strappano all’abbandono e trasformano in case per chi non ha voce. Sono il volto di una democrazia che non si limita a esistere nei palazzi del potere ma si costruisce, giorno dopo giorno, nelle strade, nelle piazze, nelle occupazioni. Sono la risposta di chi, di fronte all’indifferenza e alla marginalità, sceglie di creare invece di soccombere.
Chiaramente il governo Meloni vede in tutto questo una minaccia. Il discorso sulla sicurezza è il pretesto per chiudere spazi di socialità e cultura, per negare il diritto di sperimentare nuove forme di convivenza, per riportare tutto dentro la gabbia della proprietà privata e del controllo istituzionale. La sicurezza diventa la scusa perfetta per soffocare ogni esperienza che sfugga alla logica del mercato e del profitto. Ma di quale sicurezza parliamo? Quella che militarizza i quartieri popolari? Quella che esporta il modello Caivano? Che impone sgomberi violenti a chi ha costruito un’alternativa possibile al degrado e alla povertà?
C’è una profonda contraddizione in questa narrativa. Da un lato, si lamenta l’abbandono delle periferie, la mancanza di spazi per i giovani, l’assenza di opportunità. Dall’altro, si distruggono proprio quei luoghi che offrono cultura, assistenza, mutualismo. Si reprime chi prova a rispondere alla crisi sociale con strumenti di partecipazione e condivisione. Si preferisce lo scontro alla costruzione, l’ordine alla giustizia, il controllo alla libertà.
Ma c’è di più. Per giustificare l’approvazione del nuovo DDL sicurezza si costruisce una narrazione in cui i movimenti e i centri sociali vengono criminalizzati e dipinti come reti eversive. Si diffonde l’idea che chi occupa uno spazio per restituirlo alla collettività sia un pericolo, mentre si giustifica chi da sempre specula su interi quartieri.
Costruendo un clima di paura che serve a giustificare lo smantellamento di esperienze di autogestione e di solidarietà dal basso, la repressione diventa sistematica,
Gli spazi sociali liberati, occupati, concessi, non sono il problema: sono parte della soluzione. Sono laboratori di una democrazia più profonda, di una politica che nasce dal basso, di una società che rifiuta di arrendersi al ricatto della paura. Sono spazi in cui si impara che la città non è solo di chi può permettersela, ma di chi la vive, di chi la sogna, di chi la costruisce con le proprie mani. Sono esempi concreti di mutualismo, in cui la comunità si organizza per rispondere ai propri bisogni, senza attendere soluzioni dall’alto.
In questo scenario, le poche amministrazioni che promuovono progetti di democrazia partecipata e che riconoscono il valore dei beni comuni attribuendo tale valenza anche e soprattutto agli spazi sociali hanno un ruolo cruciale. Scegliere di non piegarsi alla richiesta di repressione imposta dal Governo e provare a sperimentare modelli di co-gestione in cui cittadine e i cittadini sono parte attiva della città significa dare spazio a una politica che non si fa con i manganelli ma con la partecipazione. La democrazia vera non ha paura del conflitto: lo ascolta, lo comprende, lo trasforma in opportunità. E oggi più che mai abbiamo bisogno di questa democrazia, non di un’autorità cieca che reprime per paura di perdere il controllo.
Beni comuni sotto assedio: il pretesto della sicurezza per cancellare la partecipazione
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