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Doppio standard mediatico: la disumanizzazione nel conflitto israelo-palestinese

Lo scambio di ostaggi e prigionieri avvenuto di recente tra Gaza e Tel Aviv ha riportato sotto i riflettori le dinamiche asimmetriche del conflitto israelo-palestinese. Questo evento non solo ha catturato l’attenzione globale, ma ha anche evidenziato un chiaro doppio standard mediatico. Da un lato, si assiste a una profonda umanizzazione degli ostaggi israeliani, con storie personali che generano empatia; dall’altro, i prigionieri palestinesi sono spesso rappresentati come terroristi senza volto. Questo divario narrativo perpetua una gerarchia implicita di valore tra vite israeliane e palestinesi, riflettendo pregiudizi storicamente radicati.

Il linguaggio utilizzato dai media principali rivela una polarizzazione evidente. Gli ostaggi israeliani vengono descritti attraverso narrazioni che ne sottolineano l’innocenza, il coraggio e la sofferenza. Titoli di giornale e reportage televisivi raccontano delle loro famiglie, dei sogni infranti e delle difficoltà affrontate durante la prigionia, creando un forte coinvolgimento emotivo nell’opinione pubblica.

Al contrario, i prigionieri palestinesi sono spesso etichettati come “terroristi” o “criminali,” senza alcun approfondimento sulle loro storie personali o sulle circostanze della loro detenzione. Molti di questi prigionieri includono donne, bambini e persone detenute senza accuse formali, ma tali dettagli vengono raramente messi in evidenza. Questo approccio contribuisce a una netta disumanizzazione, spingendo il pubblico a percepire queste persone come meno meritevoli di empatia o giustizia.

Il doppio standard mediatico non nasce nel vuoto, ma affonda le sue radici in un contesto storico e politico ben definito. Sin dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948, la narrativa occidentale ha privilegiato la prospettiva israeliana, spinta da un senso di colpa collettivo per l’Olocausto e da interessi geopolitici legati agli Stati Uniti e all’Europa nella regione.

Un esempio emblematico di questa disparità si osserva nel trattamento delle storie dei bambini. I media occidentali spesso si concentrano sulle immagini commoventi di bambini israeliani riuniti con le loro famiglie tra lacrime e abbracci. Di contro, raramente si parla dei minori palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, molti dei quali subiscono abusi fisici e psicologici. Secondo organizzazioni per i diritti umani, centinaia di bambini palestinesi vengono arrestati ogni anno, spesso senza un processo equo.

Anche le donne palestinesi, molte incarcerate per motivi politici, ricevono poca attenzione. Le loro storie di resistenza e sacrificio vengono ignorate o ridotte a mere statistiche, rafforzando ulteriormente la percezione disumanizzante.

Questa narrazione asimmetrica ha conseguenze profonde. Da un lato, consolida una visione manichea del conflitto, in cui Israele è percepito come la parte “buona” e la Palestina come quella “cattiva,” semplificando una realtà estremamente complessa. Dall’altro, influenza l’opinione pubblica e le decisioni politiche, perpetuando l’ingiustizia.

Disumanizzare una parte e umanizzare l’altra rende più difficile immaginare una soluzione equa e duratura. Il doppio standard mediatico nel conflitto israelo-palestinese non è solo una questione di narrativa, ma di giustizia. Superare questa dinamica è essenziale per costruire un futuro in cui tutte le vite siano considerate di pari valore e in cui una pace giusta e duratura possa finalmente diventare realtà.

 


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