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Affamare le università per renderle dipendenti: un disegno preoccupante

Il dibattito sull’università italiana ha preso una piega inquietante negli ultimi anni. La progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici, la precarizzazione del personale accademico, l’erosione dell’autonomia degli atenei e la limitazione della libertà di ricerca e insegnamento non sono episodi isolati o semplici conseguenze di contingenze economiche. Al contrario, sembrano essere tasselli di una strategia più ampia e calcolata: un disegno che punta a spingere le università verso fusioni forzate, trasformazioni in fondazioni e, infine, un controllo crescente da parte del capitale privato e del potere esecutivo.

Negli ultimi decenni, i finanziamenti statali all’università sono stati costantemente ridotti, con la retorica di una necessaria ottimizzazione delle risorse. I tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) hanno costretto gli atenei a ridimensionare la propria offerta formativa, a ridurre il numero di assunzioni e a ricorrere sempre più a contratti precari per il personale docente e ricercatore. Questo impoverimento economico ha creato una spirale perversa: meno fondi portano a minore qualità, minore attrattività e un indebolimento complessivo del sistema universitario.

Non è un caso che, parallelamente, emerga un discorso insistente sulla necessità di fusioni tra atenei. La giustificazione ufficiale è l’efficienza: atenei accorpati potrebbero essere più competitivi e meno costosi da mantenere. Tuttavia, dietro questa narrazione si nasconde il rischio di uno svuotamento delle università più piccole, territorialmente radicate e con un ruolo cruciale nello sviluppo locale.

Un sistema accademico fondato sulla precarietà non è un sistema libero. La crescita esponenziale di contratti a tempo determinato, borse di studio temporanee e assegni di ricerca ha reso il personale universitario sempre più vulnerabile. Chi non gode di stabilità economica difficilmente può esercitare la propria libertà di ricerca e insegnamento senza il timore di ripercussioni. Questo fenomeno non è neutrale: precarizzare i docenti significa renderli più facilmente controllabili, piegando le istituzioni accademiche alle logiche del potere politico o economico.

Alla precarizzazione si aggiunge l’erosione dell’autonomia degli atenei, un principio costituzionale messo in discussione da riforme che, negli ultimi anni, hanno introdotto meccanismi di governance aziendalistica. I consigli di amministrazione vedono una crescente presenza di rappresentanti esterni, spesso legati a interessi privati, mentre i rettori e i dirigenti si trovano a dover rendere conto più alle esigenze economiche che a quelle della comunità accademica.

Parallelamente, il controllo delle risorse pubbliche e private vincola la libertà di ricerca. In un contesto in cui la maggior parte dei fondi è destinata a progetti specifici, spesso definiti dalle esigenze del mercato o della politica, la ricerca pura e indipendente rischia di diventare marginale. Limitare la libertà delle università significa, di fatto, limitare la capacità critica della società nel suo complesso.

Le università, una volta indebolite economicamente e private di autonomia, diventano facilmente plasmabili. La prospettiva di trasformarle in fondazioni è già stata annunciata: un passaggio che aprirebbe le porte a una gestione privatistica degli atenei, con una governance dominata da soggetti esterni e un’ulteriore subordinazione delle attività didattiche e di ricerca alle logiche del profitto.

L’ingresso massiccio del capitale privato, se da un lato potrebbe tamponare la scarsità di fondi pubblici, dall’altro comporterebbe un rischio altissimo: la perdita del ruolo pubblico dell’università. Gli atenei, nati come luoghi di produzione e diffusione del sapere libero, potrebbero trasformarsi in centri di formazione al servizio di interessi economici particolari, con programmi didattici modellati dalle esigenze del mercato del lavoro anziché da quelle culturali e sociali.

Questo disegno è pericoloso non solo per il mondo accademico, ma per l’intera società. L’università pubblica è un pilastro fondamentale della democrazia: è il luogo in cui si formano cittadini liberi, capaci di pensare criticamente e di contribuire al bene comune. Affamare, precarizzare, controllare e privatizzare le università significa indebolire questa funzione essenziale.

La risposta a questo scenario non può essere passiva. Serve una mobilitazione collettiva: studenti, docenti, ricercatori e cittadini devono difendere con forza il ruolo pubblico dell’università, rivendicando investimenti adeguati, autonomia reale e libertà di ricerca.

Non si tratta solo di salvare le università: si tratta di salvare la capacità di una società di immaginare il proprio futuro.

 


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