Le immagini che arrivano dalla Striscia di Gaza non hanno bisogno di commenti: i carri armati che avanzano, i bombardamenti incessanti, le case ridotte in macerie, le famiglie distrutte. È una guerra asimmetrica, dove da un lato c’è un popolo senza esercito né difesa e dall’altro una potenza militare sostenuta dalle cancellerie occidentali. È genocidio. E davanti al genocidio non si può restare neutrali.
Le piazze italiane lo hanno capito subito. A poche ore dall’ingresso dei blindati israeliani, da Nord a Sud migliaia di persone sono scese in strada: a Milano, dove la polizia ha cercato di fermare il corteo spontaneo; a Padova, dove gli agenti hanno bloccato chi voleva entrare in stazione; a Cosenza, dove la scalinata della Prefettura è stata tinta di rosso come il sangue versato in Palestina. Ogni città ha dato la sua risposta, diversa ma unita dallo stesso grido: non in nostro nome.
Non sono solo gesti di indignazione. Sono pratiche di resistenza che rompono la narrazione ufficiale, quella dei telegiornali che parlano di “diritto alla difesa” senza mai nominare l’occupazione, quella dei governi che piangono per le vittime ucraine ma tacciono per quelle palestinesi. È la dimostrazione che esiste un’altra Italia, che non accetta di essere complice, che non resta a guardare.
Per questo il 22 settembre non è una data qualsiasi. Lo sciopero generale proclamato dai sindacati di base non è solo una vertenza sindacale: è un passaggio politico e sociale. Fermare la produzione, bloccare la circolazione delle merci, rallentare la normalità significa trasformare la solidarietà in forza materiale. Significa dire che il lavoro, la scuola, la logistica, la vita quotidiana non possono continuare come se nulla stesse accadendo.
“Blocchiamo tutto” non è uno slogan astratto: è la traduzione pratica di una presa di coscienza. Bloccare significa interrompere la catena che lega i nostri salari alla spesa militare, le nostre tasse al commercio d’armi, i nostri silenzi ai massacri. Significa costruire un legame concreto tra la lotta del popolo palestinese e le nostre lotte contro precarietà, sfruttamento, tagli ai servizi, devastazione ambientale.
La neutralità è finita. La posta in gioco non riguarda solo Gaza, riguarda il mondo che abitiamo e quello che vogliamo costruire. O saremo complici, o saremo parte di un movimento che non accetta la barbarie.
Il 22 settembre è solo un passaggio, ma è decisivo. Sta a noi trasformarlo in un punto di svolta: dalle piazze alla fabbrica, dalle scuole alle università, dalle strade ai quartieri, costruendo un fronte largo e determinato. Perché non ci sarà giustizia senza liberazione, non ci sarà pace senza resistenza, non ci sarà futuro se non sceglieremo di stare dalla parte giusta della storia.
Blocchiamo tutto. Per Gaza, per noi, per un mondo che ancora è possibile.