Per qualche ora ci eravamo illusi. Sì, proprio noi — critici, militanti, osservatori cinici ma non rassegnati. Avevamo pensato: “Ecco, forse qualcosa si muove davvero nella politica calabrese. Forse anche in questo sistema granitico e opaco, incrostato di clientele, si può ancora intravedere un gesto di responsabilità”. Perché, diciamocelo, quando Roberto Occhiuto ha annunciato le sue dimissioni da Presidente della Regione Calabria, molti di noi hanno avuto un sussulto. Non un applauso, sia chiaro. Ma un silenzioso momento di sospensione: qualcosa di inusuale era accaduto.
E invece no. Era solo il trailer. Il vero film, come spesso accade nella politica meridionale — e in quella calabrese in particolare — è un remake già visto: il grande gioco delle tre carte. Ci si dimette, sì, ma solo per prepararsi a ricandidarsi. Non per lasciare, ma per restare. Non per rispondere politicamente delle proprie scelte, ma per salvarsi la faccia e — con essa — il comando.
C’è chi parla già di mossa geniale, di strategia brillante. Ma se è genio, è il genio del male politico. Quello che usa le regole della democrazia per perpetuare logiche di potere che con la democrazia hanno poco a che fare. Quello che si appoggia al consenso — reale o costruito — per eludere il giudizio morale e istituzionale. Quello che cambia pelle come un serpente esperto, e lo fa con la complicità di un’intera classe dirigente che non solo lo tollera, ma lo applaude.
Le indagini e la “pulizia” di facciata
Le dimissioni di Occhiuto arrivano nel pieno di un’inchiesta che getta ombre pesanti sulle dinamiche della Cittadella regionale. Gare truccate, nomine pilotate, pressioni indebite: il solito campionario di cattiva gestione pubblica, condito da quella sensazione di impunità arrogante che in Calabria è quasi istituzionalizzata. E allora Occhiuto cosa fa? Tenta il colpo di teatro. Toglie il disturbo, ma solo per scegliere meglio i compagni di viaggio. Come dire: “Mi fermo un attimo, non per cambiare strada, ma per cambiare passeggeri”. Fuori quelli che hanno parlato troppo, dentro altri più affidabili, più silenziosi, più grati.
E in questo, c’è una perversa coerenza. Perché Occhiuto non si è mai proposto come uomo del cambiamento. Si è presentato come uomo dell’efficienza, della risolutezza, della governance, persino del decisionismo. Ma quel decisionismo ha avuto sempre contorni sfocati: forte con i deboli, retorico con i problemi strutturali, vago con la trasparenza. Una gestione muscolare, ma opaca. Una Regione condotta come un’azienda personale, con fedelissimi piazzati ovunque, e logiche aziendaliste applicate a una macchina pubblica che avrebbe bisogno invece di istituzioni, regole, controlli.
Il paradosso del consenso
C’è un’altra questione, più politica che giudiziaria. Occhiuto è, nei numeri, uno dei presidenti più forti del Sud. Un consenso trasversale, costruito in parte con una narrazione mediatica efficiente e in parte con le classiche leve del potere territoriale. Ma quel consenso non è mai diventato una vera visione. Non c’è stato un progetto di trasformazione della Calabria. C’è stata solo gestione. E nemmeno buona.
Perché dietro il maquillage comunicativo, la Calabria continua a essere fanalino di coda per sanità, lavoro giovanile, infrastrutture, servizi. La sanità è commissariata — e commissariata male — da decenni, e Occhiuto ha preteso di tenerne in mano le redini con l’arroganza di chi non tollera interferenze. I risultati? Disastrosi. Liste d’attesa infinite, ospedali in ginocchio, medici che fuggono. Ma guai a criticarlo: chi osa, è “contro la Calabria”.
Un sistema che non cambia
Il punto è che la mossa di Occhiuto non è un’anomalia, ma il sintomo di un sistema malato. Un sistema in cui le dimissioni non servono per assumersi responsabilità, ma per ridipingere il palcoscenico. In cui l’indagine non produce riflessione, ma solo calcolo. In cui la classe politica non si rinnova, ma si perpetua con nuovi travestimenti. E in cui l’elettorato, disilluso o rassegnato, spesso accetta tutto questo come fosse inevitabile.
Ma non lo è. Non dovrebbe esserlo. La Calabria merita di più — lo si dice da anni, ed è diventato quasi uno slogan vuoto. Ma è vero. Merita una politica che non giochi con le istituzioni, che non tratti la Regione come una proprietà personale, che non consideri il potere un fine ma uno strumento. E merita, soprattutto, una cittadinanza capace di indignarsi per davvero, di guardare oltre i nomi, oltre le bandiere, oltre le manovre tattiche.
Dimettersi sul serio
Dimettersi davvero, in politica, significa accettare di farsi da parte per lasciare spazio a una riflessione collettiva. Significa assumersi le conseguenze delle proprie scelte. Significa — parola impronunciabile — rinunciare. E invece, quello che abbiamo visto in questi giorni è il contrario: una finta uscita di scena per preparare il rientro trionfale. Una mossa studiata, lucida, perfettamente calcolata. Una “pulizia” di facciata per salvare l’essenziale: sé stesso.
Ma se questo è il modello politico che passa il convento, allora tocca a noi — cittadini, elettori, attivisti — alzare la voce. Non basta raccontare lo scandalo. Serve una narrazione alternativa. Serve una politica che sappia davvero ripartire dal basso, dalla trasparenza, dal conflitto, dalla democrazia reale.
Occhiuto resterà? Probabile. Rientrerà in sella? Possibile. Ma almeno chi lo guarda, stavolta, non dica più “che gesto coraggioso”. Dica piuttosto: “che geniale esercizio di autoconservazione”. Perché chiamare le cose con il loro nome è il primo passo per smettere di subirle.