A Torino il Ministro degli Interni non “gestisce” l’ordine pubblico: lo usa come clava ideologica. L’intervento contro il Centro Sociale Askatasuna non è un fatto isolato né una risposta contingente a un episodio specifico. È la messa in scena di una promessa punitiva, annunciata a voce alta dopo l’azione nella sede de La Stampa, e oggi trasformata in metodo. Un livello ulteriore di attacco agli spazi sociali, sperimentato scientemente in una città che da sempre rappresenta un laboratorio di conflitto e cooperazione.
Colpire Aska significa colpire una traiettoria collettiva. Significa intervenire su uno dei luoghi che un movimento ha attraversato, sostenuto, trasformato e messo in relazione. Non uno spazio qualsiasi, ma un nodo: di pratiche mutualistiche, di organizzazione dal basso, di produzione di senso e di conflitto. Ed è proprio questo il problema per il governo Meloni.
I centri sociali e le soggettività autonome non sono un residuo folkloristico né una “devianza” da reprimere. Sono, oggi più che mai, uno degli ostacoli più concreti alla piena attuazione di un progetto politico autoritario che mira a desertificare ogni forma di autonomia sociale. Dove esistono spazi capaci di produrre cooperazione fuori dal mercato e conflitto fuori dalle compatibilità istituzionali, lì il potere vede una minaccia.
La repressione non è un eccesso: è una strategia. Trasformare spazi di socialità in bersagli serve a mandare un messaggio più ampio: chi costruisce alternative verrà isolato, delegittimato, colpito. È una pedagogia della paura che punta a restringere l’orizzonte del possibile, a ridurre la politica a obbedienza e la partecipazione a silenzio.
Ma quando uno spazio che produce legami, pensiero critico e capacità di organizzazione viene attaccato, la questione smette di riguardare solo chi lo attraversa quotidianamente. Riguarda chiunque abbia a cuore la possibilità di immaginare e costruire alternative a un presente fatto di precarietà, controllo e disciplinamento. Riguarda chi rifiuta l’idea che l’unico futuro possibile sia quello imposto dall’alto, in nome della sicurezza e dell’ordine.
Difendere Aska non significa difendere quattro mura. Significa difendere l’idea che esistano ancora luoghi in cui la società non è ridotta a pubblico passivo, ma si organizza, discute, confligge. Significa affermare che non accettiamo un paese in cui ogni esperienza autonoma viene trattata come un problema di polizia.
Se questo governo sceglie di colpire gli spazi sociali, è perché teme ciò che rappresentano: la prova concreta che un’altra organizzazione della vita è possibile. E proprio per questo la risposta non può essere la rassegnazione. Deve essere solidarietà, presa di parola, costruzione di fronti comuni. Perché oggi Aska, domani qualunque spazio, qualunque voce, qualunque tentativo di sottrarsi all’obbedienza.
La posta in gioco non è uno sgombero. È la possibilità stessa di immaginare il cambiamento.
