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Il trionfo del silenzio – L’Italia che non vota e la democrazia che arretra

Le elezioni regionali in Puglia, Campania e Veneto si sono concluse senza sorprese. Tutto come previsto, tutto come ampiamente anticipato dai pronostici e, soprattutto, tutto come sembrava far comodo ai principali schieramenti. Il “campo largo” tiene in Campania e in Puglia, la destra conserva il Veneto senza difficoltà. Gli equilibri si spostano di poco, i governatori vengono  sostituiti secondo un copione già scritto.

Eppure, al di là del colore politico dei nuovi consigli regionali, c’è un dato che dovrebbe oscurare ogni stato d’animo trionfalistico: alle urne è andato appena il 40% degli aventi diritto. In alcune zone si è scesi anche sotto. Una partecipazione così bassa non è un rumore di fondo: è un segnale d’allarme. È l’indicatore più evidente di una democrazia che non sta più mobilitando, che non trascina, che non entusiasma. Ma soprattutto, è il sintomo di una frattura profonda tra istituzioni e cittadini.

La normalità malata

Tutto normale, dicono in molti. Ma se una democrazia in cui vota meno della metà della popolazione viene trattata come “normale”, allora è proprio questo il cuore del problema. Questa normalità è malata, e il suo silenzio è il vero vincitore delle elezioni. Non la sinistra, non la destra, non i nuovi presidenti: il silenzio.

La bassa affluenza non è un incidente, non è una parentesi: è ormai diventata la regola. Elezione dopo elezione, un pezzo di Paese si ritira dalla partecipazione politica. Non protesta, non si organizza, non contesta: semplicemente sparisce. E nel farlo, rende sempre più fragile il mandato di chi governa.

Governi eletti da minoranze sempre più ristrette

C’è un paradosso nella politica italiana di oggi: si può vincere bene, benissimo, e comunque governare con un consenso reale estremamente ridotto. Se vota il 40% e un candidato vince col 55%, significa che governerà grazie al sostegno di poco più di un quinto della popolazione. È una forma di legittimazione debole, che nessuno ha il coraggio di chiamare per nome.

Questo dato non delegittima la legalità delle elezioni – le regole sono rispettate – ma interroga profondamente la legittimazione democratica. È possibile parlare di mandato forte quando la maggioranza dei cittadini non partecipa? È possibile parlare di rappresentanza quando quasi metà del popolo italiano sceglie di non scegliere?

La verità è scomoda, ma semplice: a molti conviene così.

Ai partiti conviene, perché un elettorato demotivato non disturba lo status quo. Le roccaforti restano roccaforti, gli equilibri non si rompono, il potere si gestisce senza rischiare terremoti politici.

Ai leader conviene, perché possono esultare per la vittoria senza dover spiegare perché metà dei cittadini non crede più nella loro offerta politica.

Ai media conviene, perché raccontare uno scontro tra schieramenti è più semplice che indagare la crisi profonda di un sistema democratico.

E così la questione più grave — quella che riguarda il rapporto tra popolo e istituzioni — viene relegata in fondo, trasformata in una nota di colore. Una “curiosità statistica”. Mentre invece dovrebbe essere l’apertura di ogni telegiornale, il titolo di ogni quotidiano, il tema centrale del dibattito politico.

Stiamo scivolando in una democrazia solo formale, che mantiene in vita i suoi rituali ma perde lentamente la sua anima. Una democrazia che funziona sul piano procedurale ma non su quello sostanziale.

È un rischio enorme, perché un popolo abituato all’idea che “votare non serve” sarà anche un popolo più fragile, più manipolabile, più esposto alle derive autoritarie. E quando arriverà il leader che prometterà scorciatoie, decisionismo, governabilità senza opposizioni, troverà terreno fertile. Non perché avrà convinto le masse, ma perché le masse saranno assenti.


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