Lo sciopero è una pratica antica, ma non per questo esaurita. Per molto tempo è stato ridotto a rituale: una giornata di protesta segnata sul calendario, prevedibile, innocua per chi detiene il potere. Una valvola di sfogo che lasciava intatta la macchina del capitale, pronta a riprendere il suo ritmo subito dopo. Da anni ci interroghiamo su come restituire allo sciopero la sua potenza originaria: quella di inceppare i meccanismi della produzione, di incrinare l’ordine del presente, di creare una frattura nel tempo lineare della merce e del profitto.
Oggi, in Italia, una risposta è arrivata. Non come un gesto unitario e centralizzato, ma come un’onda che ha attraversato il Paese, molteplice e dissonante, capace però di comporre un orizzonte comune. È emersa una nuova consapevolezza: lo sciopero non è solo difesa di condizioni lavorative, ma rifiuto di un’economia fondata sulla guerra, sulla devastazione ambientale, sulla violenza sistemica che produce diseguaglianze e morte. Lo sciopero diventa allora pratica contro l’“economia del genocidio”, contro quel dispositivo che normalizza conflitti, sfruttamento e impoverimento come se fossero inevitabili.
Ciò che abbiamo visto è che lo sciopero può ancora fare male al capitale. Non perché blocchi per un giorno una fabbrica o un servizio, ma perché mostra la verità che il capitale cerca di occultare: senza il lavoro vivo, senza i corpi che producono, che trasportano, che educano, che curano, nulla funziona. L’illusione dell’automazione totale, del capitale autosufficiente, cade di fronte a questa evidenza: il lavoro è forza collettiva, ed è solo quando si sottrae che l’economia rivela tutta la sua fragilità.
Lo sciopero, però, non è solo sospensione. È anche invenzione. È laboratorio di nuove forme di organizzazione, di solidarietà, di lotta. È l’occasione in cui soggettività diverse – lavoratori e precari, studenti e migranti, donne e uomini – si riconoscono come parte di una stessa condizione di oppressione e, insieme, come protagonisti di una possibilità di cambiamento. La sua radicalità sta proprio qui: nel mettere in comunicazione lotte diverse, nel trasformare la rivendicazione parziale in gesto comune, nel far intravedere un tempo diverso da quello imposto dal mercato.
Che cos’è uno sciopero, oggi? È un atto politico totale. Non semplice astensione dal lavoro, ma rottura dell’ordine sociale. È un grido collettivo che squarcia il silenzio imposto dall’abitudine e dalla rassegnazione. È la prova concreta che il presente può essere interrotto e che un futuro diverso non solo è necessario, ma può essere costruito.
Per questo, oggi più che mai, lo sciopero non va pensato come un evento isolato, ma come parte di un processo. Ogni fermata, ogni blocco, ogni gesto di rifiuto alimenta un tessuto di resistenza. E da questo tessuto può nascere un nuovo movimento sociale capace di incidere, di piegare i rapporti di forza, di riportare al centro la vita contro il profitto.
Lo sciopero, se torna ad essere questo, non è nostalgia di un passato glorioso, ma anticipazione di un avvenire possibile.