I carri armati israeliani avanzano nelle strade di Gaza City. Drappi di fumo e polvere avvolgono le rovine di palazzi che in pochi minuti si trasformano in macerie: trentasette attacchi in venti minuti, dicono le cronache. Bombe-robot, droni, elicotteri. Un arsenale di morte che si abbatte su una popolazione intrappolata, senza possibilità di fuga. Oltre 60 le vittime ma chi lo sa quanti ancora.
Dallo Stato Maggiore di Tel Aviv arriva la frase che suona come condanna: “È solo l’inizio”. Un inizio che conosciamo bene, perché da decenni il copione si ripete: assedio, bombardamenti, avanzata, distruzione. Sempre con la stessa giustificazione: la “sicurezza di Israele”. Una parola che diventa licenza per il massacro.
Netanyahu ringrazia Trump per il suo “incrollabile sostegno”. È l’immagine plastica di questa catastrofe: la violenza coloniale protetta dall’ombrello della potenza americana. Washington si premura perfino di rassicurare il mondo: “Israele non colpirà il Qatar”. Ma il Qatar non è sotto assedio. Non sono i grattacieli di Doha a crollare. A bruciare è Gaza, ancora Gaza, sempre Gaza.
Non chiamatela guerra: è occupazione armata, è punizione collettiva, è la sistematica cancellazione di un popolo. È un crimine che si consuma davanti ai nostri occhi, con la complicità delle cancellerie occidentali, con il silenzio di chi dovrebbe gridare
Non è un conflitto tra pari, ma un popolo prigioniero che subisce il più spietato degli assedi da parte di una potenza militare regionale sostenuta dall’imperialismo occidentale. Non è difesa, è annientamento. Non è legittima risposta, è punizione collettiva.
Non basta indignarsi.
Serve costruire mobilitazione, serve gridare nelle strade, nelle università, nei luoghi di lavoro. Serve inchiodare governi e istituzioni alle loro responsabilità: ogni arma venduta a Israele è complicità, ogni parola di legittimazione è benzina sul fuoco.
Se questo è “solo l’inizio”, allora l’inizio deve essere anche nostro: l’inizio di una stagione di lotta e solidarietà internazionale capace di spezzare il muro dell’indifferenza. Perché la Palestina non è lontana, è il nostro specchio: lì si decide se il diritto internazionale è un principio universale o un guscio vuoto piegato alla ragione della forza.
Oggi Gaza ci guarda. E non ci chiede pietà: ci chiede giustizia. Ci chiede di scegliere da che parte stare.
E noi sappiamo da che parte stare. Sempre.