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Il carcere come discarica sociale: cronaca di una vergogna di Stato

Nel silenzio di una società anestetizzata, quarantacinque suicidi si sono consumati dall’inizio dell’anno all’interno delle carceri italiane. Quarantacinque vite strappate in celle troppo spesso sovraffollate, fatiscenti, disumane. Dietro quei numeri ci sono persone, storie, fragilità. E soprattutto c’è uno Stato che abdica al suo compito di garantire diritti anche — e soprattutto — a chi ha sbagliato.

Il Rapporto Antigone ci restituisce un’immagine agghiacciante del nostro sistema penitenziario: una macchina della punizione che non conosce né pietà né visione. E se da una parte si continua a morire in cella, dall’altra si assiste a un preoccupante aumento dei minori detenuti, cresciuti del 50% in tre anni. Un effetto diretto del decreto Caivano, un provvedimento che, in nome della sicurezza e del decoro, criminalizza l’infanzia e trasforma la devianza in un’occasione di repressione precoce.

Il carcere italiano oggi è un luogo in cui si moltiplicano gli abusi, le privazioni, le malattie mentali non curate, la disperazione. È un girone dantesco senza via d’uscita, dove il principio costituzionale della rieducazione della pena (art. 27) è ridotto a un orpello retorico. Dietro le sbarre non si costruisce alcun futuro. Si marcisce.

E quando anche i minori vengono risucchiati in questo vortice punitivo, dobbiamo chiederci: che Paese siamo diventati? Uno Stato che risponde al disagio sociale con la gabbia, che preferisce l’ordine all’umanità, che sostituisce l’ascolto con il manganello, è uno Stato che ha fallito. I ragazzi del carcere minorile non sono “baby gang”, sono figli di un’Italia che li ha dimenticati nei quartieri popolari, senza scuola, senza lavoro, senza prospettive. Ma punirli è più facile che investirci. Costa meno fatica e raccoglie più voti.

Non servono nuove carceri. Serve svuotare quelle esistenti, decriminalizzare le marginalità, potenziare le misure alternative, investire nei servizi sociali, nella salute mentale, nella scuola. Servono politiche che mettano al centro la dignità, non l’esclusione. Ma questo richiede coraggio. Politico e culturale. E oggi, quel coraggio sembra merce rara.

Non ci abituiamo ai suicidi in carcere. Non lasciamo che la detenzione diventi condanna a morte. Ogni volta che qualcuno si toglie la vita in una cella, è lo Stato a esserne responsabile.


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