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Quando la ‘rigenerazione urbana’ è sinonimo di espulsione: una riflessione che parte da Milano e riguarda tutti

Negli ultimi anni, la parola “rigenerazione urbana” è entrata nel vocabolario quotidiano di politici, architetti, imprenditori e amministratori locali. Se ne parla con entusiasmo: “riqualificazione”, “valorizzazione”, “nuove opportunità”. Ma siamo sicuri che tutti questi progetti rigenerativi stiano davvero migliorando le città per chi ci vive?

Partiamo da un caso concreto: Milano.

Negli ultimi due decenni, la città ha subito una trasformazione profonda. Quartieri un tempo popolari sono diventati zone “di tendenza”, i grattacieli hanno sostituito vecchi magazzini, i vecchi mercati sono stati convertiti in spazi culturali o commerciali d’élite. Il volto della città è cambiato. Eppure, per molti abitanti storici, questo cambiamento ha avuto un prezzo salato.

Con l’arrivo dei grandi progetti immobiliari sono aumentati i prezzi delle case, gli affitti sono schizzati verso l’alto, e molte persone si sono viste costrette a lasciare i propri quartieri. Non perché ci fossero sfratti o sgomberi, ma perché vivere lì non era più economicamente sostenibile. È quello che gli urbanisti chiamano gentrificazione: un processo per cui un quartiere “rinasce”, ma espelle chi non riesce a stare al passo con i nuovi standard economici.

Ma non è solo Milano

Milano è solo l’inizio, un laboratorio. Perché oggi dinamiche simili stanno emergendo anche in città medie e piccole. La narrazione è sempre la stessa: rivalorizzare, riqualificare, rilanciare. Ma molto spesso, dietro queste parole, si nasconde un meccanismo di selezione economica: si punta su chi può spendere, si trascurano le comunità che ci vivevano da sempre.

E così anche nelle città più piccole si iniziano a vedere gli stessi fenomeni: botteghe tradizionali che chiudono per lasciare spazio a locali di design, residenze turistiche che spingono via gli affitti a lungo termine, progetti di “smart city” che dimenticano le esigenze reali dei cittadini più fragili.

Serve una rigenerazione diversa

Rigenerare non può voler dire soltanto costruire il nuovo o rifare le piazze. Rigenerare significa anche includere, ascoltare, coinvolgere. Significa chiedersi: Chi abiterà questi spazi? A chi sono destinati i benefici di questi investimenti?

Una rigenerazione urbana giusta dovrebbe partire dalle persone. Dovrebbe garantire case accessibili, spazi pubblici vivi, quartieri con servizi, scuole, biblioteche, luoghi di incontro. Dovrebbe coinvolgere gli abitanti nei progetti, non trattarli come ostacoli al “decoro”.

Il rischio è che la parola “rigenerazione” diventi una copertura elegante per processi di espulsione e speculazione. E che le nostre città si svuotino: non solo di persone, ma di relazioni, storie, identità. Milano ci ha mostrato cosa può succedere. Ora spetta a tutte le altre città imparare da questa esperienza, e costruire modelli più equi, più umani, più inclusivi.


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