Dopo oltre un anno di massacri a Gaza, con decine di migliaia di civili uccisi sotto i bombardamenti israeliani PD, AVS e M5S rompono il silenzio con una mobilitazione tardiva. Un gesto simbolico che arriva troppo tardi per troppe vite spezzate.
Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Ma la verità è che è troppo tardi: troppo il sangue versato, troppo il silenzio complice, troppa l’ambiguità calcolata di chi ha scelto per mesi di non esporsi, di non disturbare il quadro geopolitico dominante, di non scomodare gli alleati atlantici o irritare ambienti governativi.
Quella che oggi viene presentata come una “mobilitazione per la pace” appare, in realtà, come una mossa tardiva e opportunista, figlia della crescente pressione internazionale, delle denunce delle Nazioni Unite, dei rapporti di ONG indipendenti, delle proteste studentesche e delle piazze che in tutta Europa gridano contro l’indifferenza. È il frutto della forza dei movimenti, non certo della lucidità politica dei partirti.
Per mesi si è evitato di nominare apertamente l’occupazione, l’apartheid, l’embargo disumano imposto a Gaza. Si è parlato di “equilibrio”, di “diritto alla difesa di Israele”, di “condanna del terrorismo”, senza mai inserire quei discorsi nel contesto reale: una popolazione sotto occupazione da decenni, privata di tutto, bombardata senza tregua.
E ora, quando i morti sono oltre 60.000 e Gaza è un cumulo di macerie, si decide di farsi vedere in piazza. Ma per dire cosa, esattamente? Un generico “cessate il fuoco”? Una “tregua umanitaria”? O finalmente il riconoscimento pieno e senza ambiguità dello Stato di Palestina?
Perché non può più esserci spazio per posizioni intermedie, per dichiarazioni di principio vuote, per appelli alla pace che non siano accompagnati da una denuncia forte e chiara delle responsabilità politiche, militari e storiche di Israele.
Il silenzio, in politica estera, non è mai neutrale. È una scelta. Si è scelto di non disturbare l’ordine occidentale. Si è scelta la prudenza elettorale, il calcolo diplomatico, la subalternità strategica a Washington e Bruxelles. Non ci si è voluti esporre mentre si perpetrava un massacro.
E ora, a tragedia già consumata, si cerca di rientrare nel dibattito dalla porta secondaria della “solidarietà”.
Ma la solidarietà non è un gesto estetico. È una posizione politica. E non si può essere solidali oggi se ieri si è stati zitti mentre la gente moriva sotto le bombe.
Se davvero si vuole fare qualcosa, si abbandoni l’ambiguità, si sostenga attivamente il riconoscimento della Palestina come Stato sovrano, si condanni l’apartheid israeliana, si chiedano sanzioni internazionali per chi viola il diritto umanitario, ci si unisca a chi, da mesi, chiede giustizia, non solo pace.
Perché senza giustizia, la pace è solo una tregua tra due massacri.
E la Palestina non può più aspettare.
“60.000 morti dopo, i partiti si svegliano: la Palestina non aspetta più”
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