Negli ultimi anni, il numero crescente di femminicidi in Italia ha portato alla ribalta un fenomeno che non può più essere letto come l’esito di devianze individuali o relazioni patologiche. Ogni donna uccisa non è solo una vittima, ma il segnale di una frattura profonda all’interno del tessuto sociale. Questa spirale di violenza, in particolare contro le giovani donne, rappresenta il sintomo più estremo di una crisi sistemica in cui convergono fattori culturali, economici e politici.
La narrazione pubblica tende ancora oggi a ridurre questi omicidi alla sfera dell’intimità, parlando di “rapporti malati”. Ma la realtà impone una lettura diversa, strutturale, che metta in luce il ruolo del neoliberismo autoritario, della mascolinità tossica e del collasso dei dispositivi educativi e relazionali. Il femminicidio, in questo quadro, è l’atto ultimo di un processo che mercifica i desideri, frantuma le comunità e riattiva, sotto nuove forme, l’antico privilegio patriarcale.
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Il neoliberismo non è solo un paradigma economico, ma un dispositivo ideologico totalizzante che trasforma ogni aspetto dell’esistenza – relazioni, affetti, desideri – in oggetto di consumo e competizione. In questo contesto, i corpi – e in particolare i corpi femminili – diventano terreno di appropriazione simbolica e materiale. Il desiderio è ridotto a merce, la bellezza a capitale estetico, l’amore a investimento rischioso.
Le giovani donne crescono in un mondo in cui devono performare continuamente: essere desiderabili, curate, disponibili ma indipendenti, sensuali ma non provocanti. Gli uomini, specularmente, sono inchiodati all’obbligo della riuscita: forti, competitivi, sessualmente prestanti, dominanti. Il fallimento rispetto a questi standard – che si tratti di insuccesso lavorativo, rifiuti sentimentali o non conformità fisica – non è vissuto come normale vulnerabilità, ma come una colpa personale, un’umiliazione intollerabile.
In questa dinamica perversa, la mascolinità tossica trova terreno fertile. Si sviluppa come reazione difensiva alla percezione di un’erosione del dominio maschile, minacciato da un lato dall’emancipazione femminile, dall’altro dalla precarietà economica. L’uomo non è più il “capofamiglia” indiscusso, né il principale percettore di reddito, né il punto di riferimento identitario. E questo vuoto, in assenza di narrazioni alternative sane, viene riempito da frustrazione, vittimismo e risentimento.
Nasce così la convinzione, pericolosissima, che si sia stati privati di un diritto “naturale”: quello al possesso del corpo e della volontà femminile. Il rifiuto di una donna, il suo desiderio di autonomia, la fine di una relazione diventano offese personali, provocazioni da punire. Il femminicidio, in questa logica, si configura come un tentativo estremo di ripristinare un’illusione di controllo perduto.
La scuola italiana, lungi dall’essere un antidoto a questa deriva, è spesso parte del problema. La gerarchizzazione crescente, la burocratizzazione dell’insegnamento, la marginalizzazione delle discipline umanistiche e critiche hanno contribuito a costruire un ambiente educativo più simile a una caserma che a un laboratorio di pensiero.
La pedagogia dell’obbedienza prevale su quella dell’ascolto; la competizione su quella della cooperazione; il rendimento su quella della riflessione. In questo contesto, non c’è spazio per una vera educazione sentimentale, affettiva, relazionale. I giovani crescono senza strumenti per decifrare il proprio mondo interiore, senza linguaggi per nominare il desiderio e il limite, senza esempi di mascolinità non egemonica.
Il neoliberismo autoritario – nella sua versione più recente e pericolosa – ha imparato a capitalizzare questa frustrazione. Il risentimento maschile, invece di essere decostruito, viene legittimato: la politica lo cavalca, i media lo alimentano, i social lo amplificano. Si crea così una governance fondata sull’odio, dove le donne, i migranti, le persone LGBTQIA+ diventano bersagli simbolici per canalizzare il disagio di una società che non offre più prospettive.
Laddove un tempo esisteva il welfare, oggi c’è il controllo. Dove c’era il diritto alla casa, c’è la speculazione immobiliare. Dove c’era l’assistenza, c’è la colpa individuale. L’ideologia meritocratica nasconde le disuguaglianze strutturali e alimenta il mito dell’uomo solo al comando: chi non ce la fa, ha sbagliato. E in questa narrazione, chi “impedisce” il successo – spesso le donne libere e autonome – viene percepito come un ostacolo da eliminare.
Contrastare il femminicidio richiede molto più che leggi più severe o telecamere di sorveglianza. Serve una rivoluzione culturale profonda, capace di mettere in discussione l’intero impianto valoriale su cui si fonda il nostro vivere sociale. Serve una scuola che educhi alla cura, una società che riconosca le vulnerabilità, una politica che rimetta al centro il benessere collettivo.
La violenza maschile sulle donne non è una deviazione. È il volto visibile di un sistema malato, che dobbiamo avere il coraggio di nominare, decostruire, superare. Solo così potremo spezzare la catena che trasforma il desiderio in possesso, la frustrazione in dominio, il dolore in morte.
SovversivaMente