La sentenza di primo grado del processo “Sovrano”, giunta nel primo pomeriggio di oggi, ha segnato un momento cruciale per il panorama dei movimenti sociali in Italia. Dei 28 attivisti appartenenti ad Askatasuna, al Movimento No Tav e allo Spazio Neruda, 16 sono stati assolti dall’accusa di associazione a delinquere, mentre 18 hanno ricevuto condanne per reati individuali, con pene che variano dai 5 mesi ai 3 anni e 9 mesi.
All’esterno del tribunale di Torino, il presidio che attendeva il verdetto ha accolto la notizia con entusiasmo. «Una vittoria per le lotte sociali e per chi resiste in questo Paese!» La caduta dell’accusa di associazione a delinquere viene letta come un segnale importante: un argine al tentativo di criminalizzare il dissenso politico e le battaglie sociali. Tuttavia, le condanne per reati individuali mantengono aperto un dibattito sul rapporto tra giustizia e conflitto sociale.
Questa sentenza solleva interrogativi di fondo: dove si colloca il confine tra l’attivismo politico e la repressione giudiziaria? Da anni, il movimento No Tav e realtà autorganizzate come Askatasuna rappresentano un laboratorio di resistenza e partecipazione dal basso. Spesso, però, le loro pratiche vengono lette in chiave di pericolosità sociale piuttosto che di espressione democratica.
L’accusa di associazione a delinquere aveva un peso non indifferente. Se fosse stata confermata, avrebbe legittimato una narrazione che descrive i movimenti sociali come organizzazioni criminali anziché soggetti di conflitto politico. Il fatto che questa ipotesi sia caduta rappresenta un importante precedente, che potrebbe influenzare futuri procedimenti giudiziari contro le lotte sociali. Tuttavia, le condanne individuali non permettono di abbassare la guardia: continuano a sottolineare il rischio di una criminalizzazione selettiva delle pratiche di protesta.
Il verdetto del processo “Sovrano” è dunque un risultato ambivalente. Se da un lato restituisce una parziale vittoria a chi si mobilita per i diritti e contro le grandi opere imposte, dall’altro lascia aperta una ferita: quella della repressione individuale e del tentativo di isolare le singole figure dentro una narrazione penalizzante.
La sentenza lancia un messaggio chiaro: il diritto al dissenso non può essere liquidato come un crimine, ma rimane un terreno di scontro su cui giustizia e politica dovranno continuare a confrontarsi.