La recente scomparsa di due giovani della nostra città affetti da disturbi emotivi solleva interrogativi etici, giuridici e sanitari che non possono essere ignorati. La fragilità di queste persone, spesso incapaci di difendersi o di farsi ascoltare, impone una riflessione profonda.
Negli ultimi decenni, la psichiatria ha consolidato il suo ruolo all’interno della società come disciplina in grado di diagnosticare, trattare e, in ultima analisi, normare ciò che viene considerato “deviante” rispetto agli standard di benessere mentale. Questo processo si basa su una concezione della malattia mentale che tende a reificare il disagio, trattandolo come un’entità autonoma e indipendente dal contesto socio-culturale in cui si manifesta.
Molti pensatori critici, da Foucault a Basaglia, hanno messo in luce il carattere storicamente determinato delle categorie psichiatriche. La malattia mentale non è una realtà neutra e universale, bensì un prodotto della storia e delle condizioni sociali. La tendenza della psichiatria moderna a identificare disturbi psichici come entità biologiche, radicate in squilibri chimici o genetici, ignora il peso delle condizioni di vita, dell’alienazione lavorativa, della precarietà economica e delle forme di oppressione che strutturano la società.
Il processo di diagnosi psichiatrica funziona spesso come uno strumento di controllo sociale, più che di reale comprensione del disagio. L’uso crescente di categorie diagnostiche come il “disturbo depressivo maggiore” o il “disturbo da deficit di attenzione” rivela una tendenza a incasellare esperienze umane complesse in etichette rigide, che spesso giustificano interventi farmacologici standardizzati. La medicalizzazione della sofferenza individuale porta a ignorare le radici sistemiche del malessere e a responsabilizzare esclusivamente l’individuo, sottraendolo dalla comprensione collettiva del disagio.
In una prospettiva critica, il disagio psichico non dovrebbe essere visto esclusivamente come una disfunzione da correggere, ma come un segnale di un malessere più profondo, inscritto in un tessuto sociale ingiusto. Il trattamento del disagio non può ridursi alla somministrazione di psicofarmaci o alla terapia individuale, ma deve includere una trasformazione delle condizioni materiali e delle relazioni sociali che lo generano.
Basaglia e il movimento dell’antipsichiatria hanno dimostrato che il superamento dell’istituzione manicomiale e il rifiuto di una concezione rigidamente biomedica della malattia mentale sono passi fondamentali per una reale emancipazione del soggetto sofferente. Questo non significa negare la sofferenza psichica, ma piuttosto riconoscerla come una risposta a un mondo alienante e spesso insostenibile.
Rovesciare il discorso psichiatrico significa restituire dignità alle esperienze di sofferenza, liberandole dal giogo della medicalizzazione e della stigmatizzazione. È necessario un approccio che, invece di chiudere il disagio in categorie diagnostiche, lo consideri come un fenomeno collettivo, legato alle condizioni materiali e alle dinamiche di potere della società. Solo così sarà possibile immaginare nuove forme di cura che non siano strumenti di controllo, ma percorsi di liberazione individuale e collettiva.